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sabato 14 aprile 2007

Giuse Alemmano e la sua Terra Nera, romanzo perfido e paradossale di cafoni e d'anarchia

Giuse Alemanno oltre ad aver pubblicato un suo racconto sul Corriere della Sera (Premio Nuovi Talenti 1998 con presidente di giuria Dacia Maraini), ha collaborato con alcune testate di caratura nazionale come Liberamente o Viaggia l’Italia della Amighetti editore di Parma, aderendo attivamente a numerose antologie con diversi suoi contributi in prosa. Dopo il successo della raccolta Racconti Lupi (1998) per i tipi di Filo editore di Manduria ( che tra l’altro ha avuto la curiosa sorte di essere recensito televisivamente da un’emittente lombarda (TeleBoario), nel 2001 si propone sempre per la stessa casa editrice con una seconda raccolta di racconti brevi dal titolo Solitari, un percorso che scandaglia l’abisso di una umanità brutalmente grottesca, sconfitta, mutilata da qualsiasi speranza circa un possibile, quanto improbabile riscatto in una dimensione della quotidianità alienante e stritolante. Il suo codice linguistico, soprattutto in Solitari, ha da sempre rivelato una certa crudezza quasi cannibalica, molto “sangue e merda”, come avrebbe detto Thomas Prostata, lo scrittore pulp pure troppo, esordiente qualche anno fa su Mediaset nella trasmissione Mai dire Gol! Prendiamo ad esempio alcuni passi di Solitari. Nel racconto Brutta gente si può leggere a pag. 5: “ (…) Dentro le case della brutta gente tutto è inutile. Anche i libri sono vani, che la cultura è truffa. Non c’è suono nei posti della brutta gente. Bestemmia è bandiera. Chi prende coscienza sputa in faccia a Dio”; oppure in l’Agnello a pag. 45: “ Massara Gregoria era inginocchiata, come quando prendeva la Comunione a Pasqua e Natale, ma non era l’Eucarestia che prendeva in bocca. La verga di Don Titta appariva e scompariva tra le labbra di Massara Gregoria”. Ha scritto dell’autore, Aldo Busi: “ Alemanno ha molta stoffa da cucire e conosce bene il tessuto sociale che esplora, e sono pochi gli aspiranti scrittori del Sud che non sfuggono verso una metafisica della metafora che rende obsoleto e insignificante tutto ciò che scrivono; Alemanno ha la pazienza e la bravura di parlare di ciò che conosce realmente”. Oggi Giuse Alemanno esordisce con il suo primo romanzo per i tipi di Stampa Alternativa, dal titolo Terra Nera, romanzo perfido e paradossale di cafoni e d’anarchia. Per 142 pagine Alemanno sembra voler dare al lettore in merito alle vicende contenute nel suo libro, delle coordinate cromo-semantiche fondamentalmente individuabili nel bianco dello sperma e nel rosso del sangue. Colori legati rispettivamente ad una dimensione del corpo e della sua stretta fenomenologia, su di un livello strettamente organico. Ed è il sangue a fare da padrone quando scorre copioso tra le gambe di Annina il giorno in cui diventa donna. Uno scorrere anomalo, tanto da indurre i genitori della fanciulla, Pasquale e Graziella, a chiamare Rosetta delle pezze, la mammana così chiamata o maciara ( la strega del contado), che diagnostica alla giovincella una malsana e ossessiva ninfomania, guaribile solo con l’intervento del prano-sverginatore , Zio Peppe. E ‘ Nino a raccontare le vicende del romanzo, figlio di Annina, nato anni dopo la consacrazione al sesso della madre. La donna, sovrana incontrastata del suo corpo e delle pulsioni sessuali ad esso connesse, si concede a don Aldo Fucciano, latifondista che dà lavoro al marito, il quale morirà per l’umiliazione, dopo aver scoperto le trastule tra la moglie e il suo datore di lavoro. Nino non solo vendicherà il padre uccidendo Don Aldo, facendola per giunta franca, ma entrerà nelle grazie del fratello del defunto, Don Totò Fucciano, che lo farà suo pupillo e lo manderà a studiare dal professore Fontanile. Alemanno ha la capacità di coinvolgere il lettore, offrendogli in bella posa una serie di situazioni e personaggi che rivelano come l’autore di Terra Nera sia abilmente in grado di rendere senza troppi fronzoli una realtà ai margini della quale ne ha assaporato i miasmi. Ad esempio Costantina rappresenta una personaggio dalla incredibile carica sessuale non esente da un certo appetito selvaggio e bestiale, amante già del padre di Nino, e bramosa nel voler sostituire il defunto con il figlio. Bruttacapa, agitprop anarchico, che vede in Nino le qualità del sovversivo, così viene ritratto a pag. 69 del volume: “ Bruttacapa è la più brutta specie di politicante, uno che non crede in nessuna cosa, un pericoloso tentatore che è capace di far intendere che Cristo non è Cristo a quei cafoni ignoranti, Bruttacapa è un anarchico”. E Bruttacapa è uno che di anarchia se ne intende, uno di quelli che sicuramente hanno letto i sacri libri di un Bakunin, portandosi in tasca passo dopo passo, nella sua vita di lotta e clandestinità, l’invito agli ideali anarchici di Petr Kropotkin nel suo “L’Anarchia. La sua filosofia e il suo ideale”. Si può leggere a pag. 77: “ … io non faccio il professore d’anarchia e non vengo a farvi un corso d’anarchia. Non sono qui per creare anarchici. Voglio solo farvi riflettere. Gli anarchici sono contro il governo e vogliono abbatterlo. Il governo d’oggi come quello di ieri e quello di domani. Il governo emana dai proprietari, ha bisogno per sostenersi dell’appoggio dei proprietari, i suoi membri sono essi stessi dei proprietari ; come potrebbe fare gli interessi dei lavoratori? Eppoi come potrebbe un governo risolvere la questione sociale? Questa dipende da cause generali che non possono essere risolte da un governo e che, anzi, determinano esse stesse la natura e l’indirizzo del governo. Per risolvere la questione sociale occorre cambiare radicalmente tutto il sistema che il governo ha invece missione di difendere. Per risolvere la questione sociale ci vuole la rivoluzione”.
Ma una rivoluzione per farla, non necessita solo di ideali, e parole, leggere come un soffio di vento, incomprensibili per chi è abituato ad avere le ossa rotte di stanchezza, a non godere di giorni di festa, di domeniche, di una risata allegra. E se non c’è allegria, se il desiderio di vivere viene ad essere soffocato dall’indolenza dolce e melense delle immagini da mercato spettacolare, nei centri commerciali oggi, o dalla difesa strenua della roba, ieri, con la legge biblica del perché un domani non si sa mai, come allora parlare di rivoluzione, a chi si può parlare di rivoluzione, come far passare un concetto così emancipativo, e soprattutto chi lo può accogliere, quando la cultura, si scava una fossa con le sue mani, diventando intrattenimento da salotto televisivo, e alcuni libri di narrativa oggi, si misurano con il saper raccontare la merda di questo o di quel periodo storico. Come parlare di una rivoluzione, che forse sarebbe necessaria ripensarla nei termini di un sollevare la gente dalle barbarie della sopravvivenza, dandogli più controllo sulla gestione dei tempi di produzione creativi e sulle dinamiche di accesso libero al proprio corpo, quando l’idiozia della pubblica istruzione ad esempio, scimmiotta la preparazione tecnicistica d’oltreoceano (necessaria senza ombra di dubbio ma qualcosa la trascurerà sicuramente) del vero/falso, dimenticandosi tutte le meravigliose sfumature di un sapere dialettico, critico, discussivo, aperto. E soprattutto, come accennare ad un concetto dai mille barbagli come quello di rivoluzione, per ritornare al romanzo in questione, quando l’orizzonte dell’esistenza viene ad essere così spietatamente percepito da un popolo di cafoni (per utilizzare lo stesso lessico di Alemanno), a cui questa parola sembra contenere la stessa virulenza della peste: “ (…) Il nostro sole è un martello che spezza l’osso frontale del cranio. Il nostro sole è fatto d’acciaio. Lavorare in campagna sotto il sole è una forma consentita di suicidio. I padroni per questo pagano pure. Quattro soldi. Quei quattro soldi che ingannano, sembra facciano vivere, invece lastricano la strada per l’inferno dei cafoni. E le donne dei cafoni sono la riserva di caccia dei padroni. E tutto è così. Tutto è sempre è così.” (pag. 104). Questa immobilità, questo universo cavo delineato in poche righe, dove l’energia sembra scomparire definitivamente e oblio e oscurità la fanno da sovrani, non può che far vagamente ritornare alla mente, solo per un flash istantaneo, il Vuoto Primigeno abitato da divinità cieche e idiote, che Lovecraft ha narrato nei suoi cicli di Cthulhu. Un paragone forse non tanto azzardato, perché la cecità e l’idiozia, si insinuano subdolamente quando le strade sono senza uscita, quando occorre ingoiare troppi rospi pur di continuare a campare e di andare avanti, quando fai appello a tutte le tue forze per non farti schiacciare da quel pensare alle cose serie della vita, che sempre dev’essere sacrificio e solo sacrificio, e figuriamoci poi se qualcuno parla di rivoluzione … sarebbe solo da guardare in cagnesco. E già! Chi lo porta poi il pane a tavola …: “ I cafoni vogliono sempre uno che comanda. Ne hanno bisogno. Senza si sentono persi. Non sanno che fare. Quando un cafone è confuso emerge la sua vera natura di cafone. Il cafone vuole solo essere pagato per il lavoro che fa. Il cafone non è in grado di assumersi responsabilità. Non ne vuole. Vuole solo essere irreggimentato, pagato e lasciato al suo eterno, inevitabile destino di cafone. I cafoni quando non faticano si accoppiano spesso, come gli animali. Ecco perché i cafoni mi fanno schifo. I cafoni non fanno parte del genere umano. I cafoni sono delle bestie.” (pag.130).
Ogni singolo personaggio del romanzo sembra venir travolto da uno spasmodico desiderio di liberarsi istericamente dei propri appetiti sessuali, senza minimamente curarsi delle convenzioni proto-civili di un gruppo comunitario rurale. Zio Peppe, a metà strada tra santone e guru tantrico agreste, dotato del buon senso di un infame, si fa ripagare delle sue consulenze scegliendo gli orifizi delle malcapitate in cui svuotarsi, giusto quando il denaro non attuasse quelle debite condizioni per poter saldare decorosamente i debiti. E quale migliore dimostrazione di bestialità da parte di un uomo di cultura e di scienza, come il dottor Buccolieri quando sottopone a visita ginecologica la giovane Annina. Il medico verificando le condizioni di integrità anale della fanciulla, dopo quelle vaginali ovviamente, asseconda con il dito infilato nell’orifizio della fanciulla, i ritmici movimenti del bacino della stessa, perdendo ogni dignità professionale per quell’inaspettata manna di cedevolezza lubrica. Di spunti di riflessione questo lavoro di Alemanno ne potrebbe dare a bizzeffe, e di sicuro non è sufficiente fermarsi ad una lettura che computi i riferimenti di genere letterario come, per citarne uno, il Verismo verghiano, né tanto meno quell’altro aspetto del sapere, l’antropologia, che farebbe calzare ad hoc il linkaggio ad una Terra del Rimorso di De Martino. Terra Nera, si mostra come un lavoro ben fatto, organicamente strutturato sul piano dell’intreccio, e bilanciato circa la gestione simmetrica dei dialoghi. Da questo momento in poi da Alemanno ci si potrà aspettare qualcosa di veramente buono! (da www.musicaos.it)

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