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martedì 31 luglio 2007

Gian Carlo Fusco: Duri a Marsiglia


Il nero. In grado di assorbire tutte le radiazioni ottiche che riceve, tanto da non rimandarne alcuna che ecciti l’occhio. Proviamo su un altro piano. Simbolo del lutto, della disperazione, della separazione, di cattivo augurio, di pessimismo, di monotonia, di ostilità cupa, di grave preoccupazione, di paranoia, associato all’inferno o ad una coscienza macchiata dal peccato, o ancora dagli scheletri nell’armadio che tutti (chi più chi meno) ci portiamo dietro e che talvolta di notte fanno tirare tardi prima di lasciarci addormentare tranquilli. Il nero. È una dimensione del simbolico che non difficilmente si lascia trasportare su latitudini di senso che fanno riferimento al losco, al clandestino, al criminoso. Leggendo Duri a Marsiglia, di Gian Carlo Fusco, si rischia di camminare alla cieca lungo gli impervi sentieri dell’oscurità. In essa, come quando si è al buio, quando ovunque non c’è nemmeno un tenue barbaglio, quando non si ha nessun appiglio per rendere più sicuro il passaggio nell’ignoto, ovvero in tutto ciò che deve ancora accadere, e che non può essere previsto, che atterrisce quindi perché inevitabile, ogni cosa diventa condizione di una tensione verso il lecito e l’illecito, come tendenza appetitiva, vorace, assolutamente da soddisfare. Si può diventare facile preda dell’angoscia, è quasi ovvio. O si decide di proseguire il cammino, o ci si toglie di mezzo! A pag. 17 dell’introduzione a cura di Tommaso De Lorenzis, - a detta di Genna è un libro che vale la pena di acquistare non fosse altro che per il contributo introduttivo (non è questa a mio avviso la valenza parametrica che stabilisce il valore di vendibilità di un libro, semmai il pregio dell’introduzione di De Lorenzis è che ti fa venire l’acquolina in bocca spingendoti a scivolare, e con una certa impazienza anche, con gusto tra le pagine di Duri a Marsiglia), si può leggere: “ Il Nero non si esaurisce nella meccanica di un attacco allo stato di cose presenti, bensì si agita sopra e sotto la realtà, sviluppando in una riscrittura insaziabile i contenuti del surrealismo”. Sintesi fenomenologica di una piccola machine de guerre, dove gli ordigni delle traiettorie oniriche e delle maledette eccedenze portano un assedio feroce alla vita. Come controparte però questo meccanismo marziale, per inversione, può trasformarsi in uno scudo efficace contro la durezza della realtà, come antidoto alla perdita del proprio centro di gravità permanente mentre si è nell’occhio del ciclone, nella quiete assoluta prima della destinale soluzione distruttiva inevitabile, di un individuo che lotta contro la grande bonace. Ma quello che più mi ha impressionato è stata un’espressione, per me da qualche tempo quasi mantrica, sempre alla stessa pagina, sempre nel contributo introduttivo di Tommaso De Lorenzis, talvolta basta una parola per indicare quello che accade tra l’inferno e le nuvole … l’espressione è croque-soi-meme … mangiare se stessi … la follia dell’autodistruzione, l’apice di un’autofagia nichilistica, oppure la degna conclusione di una vita come opera d’arte. Proprio come alcuni personaggi di dannunziana memoria. Ma procediamo con ordine. Per chi volesse approfondire le sue conoscenze circa l’autore di Duri a Marsiglia, Gian Carlo Fusco, utili soprattutto per avere delle coordinate più puntuali sul retroterra non solo scritturale ma anche umano che sovrintendono a quest’opera, rimandiamo ad alcune considerazioni, splendide, eleganti, in punta di penna, di Giovanni Arpino, impossibili da non riportare, a pag. 183 e 184 : “ Italiano anomalo per destinazione, figlio di radici composite, ballerino di tip tap, quasi pugile e quasi cantante, Gian Carlo Fusco ci arriva direttamente dalle grandi cronache del Tre-Quattrocento, così come lo si potrebbe paragonare ai poeti e ai cronisti sulle strade dell’America di frontiera o ai personaggi spagnoli di Alemàn , per non citare Rabelais. La sua fedina letteraria e giornalistica lo comprova perfettamente, una rilettura ci riporta le dimensioni eroico farsesche ( e puntigliosissime, come capita al buon chronique) d’un mondo estraneo a ogni molle snobismo elitario. Amico di tanti ma anche nemico per eccessi umorali di troppi, Gian Carlo Fusco – il buono e il bilioso, il generoso e l’insolente, l’innamorato e il sognatore malavitoso – è sulla scacchiera delle testimonianze letterarie italiane , un pedone hors catègorie, non catalogabile”. Per la cronaca Fusco (1915-1984) ha collaborato a Kent, Abc, Playboy, e nel ’58 Einaudi ha pubblicato Le Rose del Ventennio. Duri a Marsiglia ( prima edizione nel 1974), è la storia di un anarchico di diciotto anni, nato da una famiglia borghese, che scappa dall’Italia fascista, siamo nel 1932, e scopre in Marsiglia, la città dalle mille avventure e della guerra dei clan, dove in un turbine di accadimenti si intrecciano storie dal sapore di brillantina, di ghette, di sparatorie, o regolamenti di conti come si preferisce, le prime ad avere come protagonisti i mitra di Al Capone, importati a Marsiglia dai trafficanti mafiosi italo-americani, degli amori impossibili per donne intoccabili, storie di avanzi di carriera e incontri con avanzi di galera, la lotta quotidiana con lo spleen maledetto e biforcuto, e nomi, soprannomi, come Pilù, Vincenzo Parasole, la Carpe, Don Raffaele Spirito, o Patatrac Tozza, che forse non ricorderai mai, perché tanta è la maestria di Fusco nel catturarti lungo le sue narrazioni, che non ci badi se la pellicola è un po’ graffiata in alcuni punti. Il protagonista di questa storia è Charles Fiorì, che così viene descritto mirabilmente, da Luigi Bernardi a pagina 189 e poi alla successiva : “ (…) e Charles Fiori, il destino se l’è scelto da solo, la sua ribellione l’ha portata a buon fine e, quanto alla noirceur, non sa neppure cosa sia. Non è neanche un duro tanto duro, a dire la verità. Qualche cazzotto quando serve, raramente. Una pistolettata se non se ne può fare a meno, e benedette quelle due ostriche infette che gli hanno sciolto gli intestini, altrimenti col cavolo che si sarebbe opposto al trio di rapinatori della bisca clandestina, guadagnandosi sul campo una promozione che altrimenti ben difficilmente sarebbe arrivata. E neppure è un tipo che si lascia infinocchiare dalle prime dark lady che incontra per strada. Se non fosse per Michèle, la trentottenne infermiera nativa di Sanremo con la quale sostiene di aver passato delle belle mezz’ore, il fascino femminile fa scarsa presa su Charles Fiori “. Insomma un individualista, uno che non crede in nessuna delle società che l’uomo ha creato, in nessuna delle consustanziali istituzioni, ipocrite, false, meschine. Tutte trappole per fregare i poveri e favorire i ricchi. Ma anche un poeta, di quelli atipici forse ma sempre un poeta, un tipo come questo che tra una sparatoria e l’altra, o tra l’accudire la carriera di qualche mignotta, prende un sospiro di sollievo leggendo i Fiori del Male di Baudelaire, un poeta di strada però, di vita, non militonto ovviamente, ma militante arguto nel sapersi destreggiare tra qualche scazzottata e un agguato, che conosce le dure leggi della giungla e che sa che anche la poesia ha i suoi limiti : “ I poeti, come si sa, passano, con un salto solo, dalla fraternità, all’inimicizia. Dall’abbraccio al morso”. Meraviglioso, non c’è che dire! Un libro che vale la pena leggere, perché ti da delle dritte su tutte quelle sintassi del corpo che appartengono a domini della società che sono fuori portata, lontani dagli occhi della brava gente, regole che istruiscono sul fatto magari che se accendi una sigaretta ad uno del milieu, tenendo l’accendino in orizzontale con la fiamma che disegna una traiettoria ellittica prima di fare il suo dovere, ti peseranno subito come un infame, o ancora che una tregua stipulata tra due clan di FAMIGLIE d’onore, va regolata in territorio neutrale, davanti a testimoni, con una stretta di mano della durata di più di dieci secondi, e così via. Vogliamo anche trovarci anche un piccolo compendio di come si veste uno del milieu per le grandi occasioni? Eccolo a pag. 122 ad es. : “ Aveva in dosso un completo grigio ferro a rigoline blu, giacca a doppio petto e gilè. Attraverso il gilè, messa a festone, gli brillava la catena dell’orologio mucho pesada. Le scarpe di camoscio grigio, con la mascherina blu, come le rigoline del vestito, dovevano essere nuovissime, perché crujivan a ogni passo”. Per chi ha amato ogni fotogramma di films come C’era una volta in America di Sergio Leone, o La Stangata, un libro come Duri a Marsiglia, non potrà non entrargli nel cuore, fosse anche con la stessa violenza di un colpo di pistola sparato a bruciapelo, da una distanza ravvicinata. Un libro che ti fa riflettere … conviene darsi alla macchia, conviene attraversare il bosco … forse sì … chi lo sa!!


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