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venerdì 7 settembre 2007

Il mondo di Afra di Luisa Ruggio


















Luisa, tu sei uno dei volti del giornalismo televisivo più conosciuti nel sud (e penso e te lo auguro a breve anche sul territorio nazionale), hai ideato e condotto diversi programmi, insomma ti sei fatta conoscere e apprezzare in questo campo, come una seria e valente professionista. Ma Luisa ha anche un altro lato, che è quello della passione per la scrittura, che stiamo apprezzando con il tuo libro d’esordio, dal titolo Afra, per i tipi di Besa.
Quando hai contratto questa malattia?
Scrivere ha sempre popolato la mia vita, incantandola. E’ stato il mio oracolo, la mia sola gioia di vivere, un’insonnia che porta troppo lontano e invita a ritirarsi dal mondo, anche quel mondo di cui sembro fare parte nello slalom continuo del mio lavoro di giornalista televisiva, che a me non svela nulla, è intrattenimento per gli altri, una specie di copertura per il laboratorio alchemico dove mi rintano da quando ero pressapoco una bambina, innamorata della combinazione impossibile delle parole. Quelle parole mi chiamavano come compagni di gioco in un cortile, come amanti in fumose camere d’albergo, come luoghi di elezione e salvifico smarrimento, le trovavo sulla vecchia Olivetti Lettera 35, dono di un vecchio signore col Borsalino blu, che era mio nonno. Un uomo del Sud, pratico e romantico allo stesso tempo, atratto dalla letteratura ma non al punto da lasciarsi sedurre dalla Bellezza. Io credo che mi abbia regalato quella vecchia macchina da scrivere per scardinarmi e insegnarmi che a volte i cardini del Palazzo di Armida nel nostro cuore e nella nostra penna non sono d’oro bensì di un vile metallo, come quello che muove le lettere da battitura. Perchè si scrive a colpi, a colpi diretti, cercando di dimenticare un corpo che ci è stato dato non perchè ci limitassimo a viverlo. E’ difficile lasciare che l’immagine di ragazza che nella vita fa ” la televisione ” passi sullo sfondo rispetto a quello che sono veramente, una ragazza che scrive. Sono più una che scrive che una persona viva. Ha detto Pavese: chi sa vivere non scrive e chi sa scrivere non sa vivere. Io non è che non abbia saputo vivere, il fatto è che mi è riesciuto di farlo meglio nei miei mondi.Afra. Una terra che rievoca per il suo calore il ventre gravido di una madre, un orizzonte esistenziale fatto di uva regina, di ulivi secolari dal profumo inconfondibile, di sudore, di amore, oscenità e tradizioni. Sì, perché Afra in fondo è la storia di una famiglia, in questo nostro Sud del mondo, dove si intrecciano passioni e sentimenti, rinunce pesantissime, incomprensioni e profondo sentimento, in un intreccio che coinvolge sentimentalmente il lettore sino in fondo, con uno stile davvero maturo e intrigante che qualifica come pregevolissima l’opera di questo tuo esordio.
Come è nata l’idea di questo libro? Da quanto tempo ci stavi lavorando? E ancora, ci sono stati lettori “VIP” che ti hanno dato qualche consiglio?
Non esistono consigli nella scrittura. Esistono i fogli di scrittura, i continui ripensamenti, il desiderio costante, feroce, di cancellare tutto, di domandarsi davanti alla prossima parola da scrivere che cosa si crede di fare. Non c’è scrittura se non c’è un problema, il libro è lì anche quando non siamo ancora in grado di parlarne, è l’ignoto che è dentro di noi, profondo e astratto, nella placenta dei giorni e nel lievito dei fatti della vita. Ho cominciato a scrivere Afra in un pomeriggio di primavera di tre anni fa, tre anni sono tanti per scrivere un romanzo, tre anni non sono niente per scrivere un romanzo. Ci sono romanzi che durano tutta la vita, che non finiscono mai, come certi quadri e questa è una cosa in pittura si impara presto: i quadri sono superconduttori di tempo perchè intrappolano la luce di cui è fatto il mondo, di cui siamo fatti noi. Luce e spazio vuoto. Mi piace applicare quest’immagine anche alla scrittura, i romanzi come superconduttori di tempo, come quel genio finito nella bottiglia che qualcuno ha trovato il modo di acciuffare, proprio come nelle favole arabe, le più antiche del mondo e così attuali quando si tratta di farsi un’idea della narrazione. Mi fermo spesso a pensare che in Oriente esistono ancora i narratori di storie, si fermano per strada, nei mercati, tra gli incantori di serpenti e di scorpioni, nella polvere di una strada di spezie e preghiere: laggiù ci sono ancora i cantastorie, i portatori dell’oralità di un tempo, i libri umani, con mani raggrinzinte come le antiche pagine di un codice miniato e scampato a un incendio. Se un consiglio ho trovato sono stati proprio i libri a darmelo. Ho un’inconsolabile voglia di leggere. E’ tutta colpa di Marguerite Duras se ho deciso che da grande avrei scritto. Poi, certo, nella mia carriera televisiva ho avuto modo di incrociare la strada di molti scrittori che amo, Erri De Luca, per esempio, Antonio Tabucchi, Rina Durante, Roberto Cotroneo. Credo che già il solo fatto di aver avuto il privilegio di una chiccherata e un paio di caffè con questi sultani della scrittura sia stato come carpire i segreti nella bottega del cesellatore.

In Afra, c’è un forte desiderio di raccontare, o meglio un gusto del narrare che risponde a quell’istanza della mitopoiesi (della creazione del mito, quello del saper dire di una storia o di più storie) propria di una tradizione narrativa post-millennio. Ed Afra pare in verità più che un mito, un discorso sul mito, quello di un Sud del Sud del mondo. Tu a quale tipo di Sud appartieni?
Appartengo a un Sud che non esiste. Che invento di continuo e dal quale, qualche notte, mi lascio pensare, come sapendo che il Sud impossibile del mio cuore non si dimenticherà di me nei suoi continui, emorragici, slittamenti di memoria. Quando vivevo lontano dal Salento, a Milano, chiudevo gli occhi per ritrovare una bussola che mi indicasse almeno una delle verità che soffiano tra i due mari di questo Mediterraneo delle meraviglie che di meraviglioso in questi anni ha poco e niente, che vede nei suoi fondali pascere i morti di tante traversate dell’ultima speranza e ha cancellato le rotte per le città sommerse cantate dai poeti e dai disturbati del sonno. Appartengo a un Sud visionario, dove la Bellezza ha un valore panico e molti militanti della scrittura finiscono con lo scomparire come le vergini della Hanging Rock australiana nel bel film di Peter Weir tratto dal romanzo irrisolto di Joan Lindsay. Il tradimento di una Natura che entra in ogni cosa, come una donna che toglie il fiato e che continueremo a perdonare anche se sappiamo che ci mentirà sempre. Ma a volte sono i luoghi che ci tradiscono di più quelli che più amiamo. Il Sud è solo spleen, è una nostalgia, una sospensione, un parallelo ambiguo della veglia, al rallenti.
Sappiamo, Luisa, che tu hai avuto anche esperienze editoriali, in sedi più scientifiche, nel campo della saggistica psicologica e cinematografica. Lì i codici cambiano, occorre più rigore, più capacità di sviluppare in chiave analitica, quello che si vuole dire. Nella realizzazione di Afra, hai sentito un gap, tra quel tuo modo di scrivere e questo?
I saggi sul cinema e la psicanalisi hanno comunque richiesto e mantenuto ferma la mia vocazione narrativa. Sono soprattutto memorie, gli archivi di un rapporto con la sala cinematografica che è stata, presto nella vita, la mia seconda casa. Perchè negli anni di mezzo, tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, mio padre decise di rilevare la gestione di molte delle antiche sale cinematografiche salentine. Questo ha significato per me passare intere giornate al cinema, vedere una quantità di film impressionante, assaporare il contatto, psico-fisico, con il buio protettivo della sala, stringere alleanze con i vecchi proiezionisti resistenti all’avvento delle super-attrezzature dei multisala. E’ stato come viaggiare. Nei miei saggi ho solo riportato i diari di questi viaggi che si svolgono sempre nella mente di uno spettatore incallito, in quella felicità del non esistere che prende chiunque davanti a un buon film. Ho analizzato questo aspetto ma senza la tecnica dello scandaglio accademico, con la semplicità di chi riporta un paesaggio di dentro. Anche con Afra ho fatto questo, Afra si può leggere in molti modi, così come ogni film si presta a esegesi amplificate per ogni spettatore. Come negli antichi restauri dove è facile intuire un doppio sfondo, anche in questa storia c’è un altro panorama oltre a quello di una terra che accomuna tutti i personaggi, ed è un panorama umano, un panorama della mente dove forse parlare di psicologia può sembrare abusivo ma non lo è considerando il fatto che pur essendo avvistati quotidianamente nei luoghi che la vita ci ha assegnato, tutti noi, chiudendo gli occhi, siamo sempre da un’altra parte.
Entriamo in una sfera più personale … quali sono gli autori contemporanei in prosa e/o in poesia a cui ti senti più vicina, più legata, che ti hanno magari aiutata a superare alcuni ostacoli nella dimensione del quotidiano?
Avrei voluto conoscere Marguerite Duras, guardarla scrivere, anche sbirciando da una porta socchiusa. Così anche Anais Nin, e Jeanette Winterson, che vive attualmente in Inghilterra. Ho amato il primo Baricco, ma poi correvo a leggere Henry Miller. Ho divorato Marquez, ma poi mi sono ubriacata con Allen Ginsberg. Ho pianto per colpa di Meir Shalev, ma poi ho scoperto Amos Oz. C’è sempre un Tabucchi sul mio comodino, anche se è coperto dai capolavori di Maurizio Maggiani. Karen Blixen mi ha cambiato la vita, in tutti i modi in cui una vita può essere cambiata.
Questa domanda è d’obbligo … progetti per il futuro?
Scrivere. Cos’altro?
da booksblog.it

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