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sabato 15 marzo 2008

Quel 16 marzo di trent’anni fa!




















1977. C’era stato il settembre, l’ultimo atto d’una tragica ‘festa’, il definitivo epilogo di quel movimento che dalla fine degli anni sessanta, con profondi e sofferti mutamenti interni, aveva tenuto desto il desiderio e la speranza ‘di un Mondo diverso’. ‘L’impossibile’ di cui non potevamo allora accorgerci!!!

Altro si preparava e lo scampolo del settantasette annunciava un vento ‘nuovo’.
Ma non sempre il nuovo e buono… .

Per me sì! Per i miei compagni pure: partivamo, lasciavamo la città. Avevamo scelto un posto piccolo per la nostra iniziazione alla vita. L’università era un po’ questo. Andarsene, cominciare a vedersela da soli. Fare i conti con la responsabilità, la sopravvivenza e con il piacere.

Urbino ci sembrava l’ideale. In una buona posizione geografica ma col giusto isolamento. Città piccola ma molto trafficata. Tutte anime in cerca. Avevo scelto sociologia, affascinato dai ‘grandi’ nelle socializzazioni politiche degli anni extraparlamentari. Sociologia: andare a guardare nelle pieghe, spiare, nascondersi, mimetizzarsi per capire ‘l’altro con gli altri’. I sistemi, il grande e il piccolo. Gli orientamenti e l’odore della vita. Una visione ideale presto delusa da un idea numerica, statistica delle scienze umane. Ma poi studiare era solo un fatto laterale. Altro era attraente. E Urbino era un po’ un enclave di creativi, di ‘freak’ per natura post politici, in cerca di emozioni forti. Il vero fronte fu quello, almeno per un po’ meno combattivo, di lasciarsi nelle braccia di Morfeo: l’illusionista che trafficava in polveri per domare gli ardenti spiriti.

Poi venne marzo. Il 16 marzo 1978.

E il “vento nuovo” s’annunciò, a lezione, la faccia del nostro professore sbiancò, insegnava sociologia del lavoro, un uomo impegnato nel sindacato: un omino gli si era avvicinato per sussurragli qualcosa all’orecchio!

Ci disse: è successo un fatto molto grave, devo lasciare Urbino. La consegna è di rendersi irreperibili. Hanno rapito Ado Moro. C’è aria di golpe.

Giuseppe D’Avanzo su Repubblica scrive: “Non c’è chi non ricordi dov’era e con chi in quel momento, che cosa disse e fece in quel momento preciso quando seppe che cosa era accaduto a Roma. Non c’è chi non abbia ancora negli occhi – al punto da poterne sentire ancora l’ansia – i parabrezza frantumati, i fori neri nell’auto bianca, il corpo di Iozzino a braccia larghe coperto da un lenzuolo bianco e la macchia di sangue sull’asfalto – densa, scura – un caricatore vuoto accanto al marciapiede nel piano sequenza di tre minuti e dodici secondi dell’operatore del Tg che accompagna la voce ansimante di Paolo Frajese”.

E’ vero ricordo tutto chiaramente, quel tempo è rimasto nitido.

A noi ci prese una strana euforia. Aldo Moro era un “nemico”, era lo Stato, era la DC, chi aveva sconfitto e resa vana la nostra utopia, la rivoluzione. Quello che gli era capitato era da considerarsi un incidente sul lavoro. Una conseguenza, un rischio che egli doveva calcolare. Così dichiarai, in una assemblea convocata in fretta con un passaparola che in pochissimo tempo raggiunse tutte le aule della città studi! Mi sorpresi di quello che avevo detto. Ero rimasto sempre muto sino a quel momento. Ore e ore di assemblee, di attivi, di riunioni io, a Lecce, le avevo trascorse in silenzio. A guardare. A volte non ci capivo gran che. Soprattutto non capivo quell’azzuffarsi continuo dei ‘grandi’ su distinguo sottili, complicati che si consumavano in stanze piene di fumo.

Insomma quel 16 marzo scoprì che potevo esprimere un opinione: Aldo Moro era come un operaio caduto da un impalcatura!

E gli altri? Anche loro? Quei morti, quel sangue?! Nemici di classe, poliziotti, carabinieri… Mi fermai, possibile che la prima mia espressione pubblica avesse il sapore amaro di quel “bigottismo” politico che intimamente avevo sempre rifiutato?

Poi i giorni dell’ansia! Le lettere e la sensazione amara di un uomo violentato, un uomo con la sua fragilità e il bisogno di essere ascoltato. Un uomo rispettoso dei suoi carcerieri che pienamente accoglieva la conseguenza del suo ruolo. Lo stesso non si può dire di tutti gli altri rimasti a guardare, tradendolo! Anche loro carcerieri e complici!


di Mauro Marino

fonte iconografica www.cedost.it

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