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giovedì 27 marzo 2008

Stefania Ricchiuto su Ieratico Poietico























C’è una poesia che fugge dal suo stato costretto, da una condizione – esistenziale e di pubblicazione – che la vuole erotica ad ogni costo. Le ultime tendenze editoriali hanno offerto scritture dall’intento lussurioso, mercificando in modo inenarrabile la sensualità della parola, e compromettendo radicalmente la percezione reale di un verso ardito. Scrivere del corpo e delle sue sensibilità nel richiamo di sé e di un corpo altro, ha assunto ultimamente la maniera della moda più detestabile, smarrendo tutto il significato politico del desiderio dichiarato, dell’eccitazione narrata, del peccato comunicato. Spacciare per musa un sussurro registrato male, fare di un brivido ripetuto un’ode fine a se stessa, costruire fiamme elegiache per mera - ma non autentica - intenzione, ha edificato senza dubbio un mercato piccante e più che pasciuto, fornito di un’identità d’autore stranamente fatta donna. Con dei però, mortificanti. Ha infatti ridotto a semplice possesso il potere attivo che attraversa il corpo; ha richiamato, almeno in parte, discettazioni superate su un’autodeterminazione fisica da anni ormai compiuta; ha elaborato, nell’incoscienza, materiale d’offesa per quella che Giuseppe Genna definisce “la questione femminile che siamo costretti a nominare tale ad altezza 2008”. Contro tutto quanto, e oltre, c’è una poesia che fugge, e rifiuta l’imballaggio di sé, la veste da abuso e consumo, l’involucro da vendita garantita e indifferente. A fatica, chiama visibilità genuina e raccoglie un’attenzione più che distratta, e anche quando la si vuole restituire a forza in forma di autobiografia emozionale ed emozionata, essa urla e proclama i temi della denuncia dalle righe del suo contenimento, e non c’è prefazione astuta che ne possa falsare la volontà esclusivamente e pericolosamente sociale. Resiste, comunque e dovunque, e si fa canto dell’opposizione ancora possibile. Come questo “Ieratico Poietico”, poema di severa generazione di un intellettuale giovane e giustamente stanco.

La scrittura di Stefano è esoterismo puro. Prima di tutto perché strutturata secondo una linearità magica e significativa: i movimenti narrati sono tre, e fanno da stadi evolutivi della materia da dichiarare, e non per caso il primo atto è un fiume, il secondo una fuga, il terzo un desiderio. Nell’inizio, lo scorrimento della parola sfoga quel che Stefano vede, sente, incontra, ma soprattutto ciò di cui è parte integrante e nolente: le “silenziose folle spente” che si fanno largo in una quotidianità troppo anonima, sono masse scrutate ma anche subìte durante i modi del loro divertimento, e l’unica arma che ad esse si possa opporre è l’”essere fuori tempo”, e custodirsi tali con audacia infinita. L’uniformità esasperata è la denuncia che l’autore affida al primo suo procedere in flusso, registrando i colori stinti, i fetori nauseabondi, i fragori molesti; tutti gli aspetti spiacevoli e non leciti, insomma, di una condizione contemporanea tanto comune quanto malamente celata. Un mantra indovinato espone l’oggi del lavoro, che spoglia il sé di creatività e inficia anche l’arte di metodo produttivo: “lavorare bene/ lavorare sodo/ lavorare come si deve/ lavorare su versi/ lavorare sul prossimo racconto”. Le ripetizioni, gli elenchi, gli inventari sono preghiere ricorrenti anche in seguito, come note fini di un rimprovero costante, a ben rendere la situazione automatizzante del momento. In più, i richiami letterari, musicali, storici, sono incalcolabili e rendono lo scritto un labirinto di link impossibili da cliccare. Ci starebbero bene freccetta da puntare e universo da spalancare, ma il dissolvimento del presente si realizza anche tra questi impedimenti, e nell’auspicio maledetto dell’ “ecco cosa ci vorrebbe: un cappio”. Nella seconda parte, il presente cede la gogna al passato, e la confessione sfrenata di prima si fa narrazione cauta dell’inenarrabile. “ Ci sono storie / che non devono essere raccontate / quando in tasca / non rimane altro”. L’esplorazione qui si fa aguzzina, la penna – l’oggetto non si usa più, ma l’atto sempre penna rimane - si cala nei tombini fondi delle fogne più sudice, per sganciarsi prudente eppure voluttuosa dalla corda della risalita, e affondare nell’inchiostro più inquinato. Giù, più giù, in profondità, fin nel sottosuolo delle cronache (im)possibili: “perché a dire si rischia / di perdere tempo / di espiare a stento / malcelate sicurezze”. Alla ricerca di memorie sotterranee, Stefano raccoglie la risorsa-tempo, “un tempo senza tempo”, e la sua finitudine fatta di fretta e ansia. Attraverso gli occhi indagatori, bloccati da un’ipnosi destabilizzante ( “in my eyes / in my eyes / in my eyes” ) l’autore chiede e non ottiene il diritto alla lentezza, e la denuncia adesso è contro un mondo che ci pretende disponibili-funzionali-ininterrotti, 24 ore su 24. Insostenibilmente. Non resta che scappare. La terza parte è l’attesa, l’aspettativa, quel che verrà. E la materia - putrefatta in prima fase e purificata poi - ora può cedere al sogno, alla chimera, all’utopia di uno stato differente delle cose. Anche della poesia, che “ è tutta / incentrata / su di una scelta entropica / del Paradiso”, ma che è cosa fatta da gente inchiodata a sé, pronta a muovere parole per un prestigio tutto pubblico, e che tanto diffonde ma nulla comunica. L’alchimia è terminata, la materia è sublimata, l’opera è al rosso: Stefano ha concluso un libello solenne e creativo, più che buono e più che etico, che risveglia - nell’occulto di una frase netta - l’urgenza del passaggio poietico/poetico/politico. Perché Poesia ritorni a sorvegliare, Militanza recuperi sentimento, Cultura restituisca approdo. Per questo, occorre “essere presenti / e invece si è pigri. Insopportabilmente pigri.

fonte Cool Club

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