giovedì 28 agosto 2008

Ordem e Progresso di Adriana Maria Leaci

È passato tanto tempo…
E a pensarci oggi
A vederti in foto
A seguirti sui giornali, riviste e tv
A sentire i parenti, amici e conoscenti
sei tanto cambiato.
Succede spesso.
Pensi di conoscere tutto
di sapere ogni dettaglio
di prevedere ogni evento.
In verità non sai niente
Ti sfuggono particolari
Non riconosci i colori
Dimentichi le parole che hai condiviso…
Quando ti ho lasciato
mi sembravi intrappolato dagli artigli della gente
La gente che ti sfrutta e che ti spreme
si arricchisce a tue spese e ti consuma
vantandosi dei beni che hai
a totale disposizione di chiunque.
Ti amavo troppo per restare solo a guardare
per assistere senza poter fare nulla.
Era il tempo dell’abbandono
Ti hanno lasciato milioni di volte
Per tornare di corsa piangendo
Come ho fatto io
Pensando di rimanere e rifarmi una vita
Invece ti ho deluso ancora
ho rifatto le valigie e ti ho salutato
in lacrime
per tornare quando
semmai Dio vorrà
Anche Iddio è tuo
L’hanno detto in tanti
In parte sei rimasto lo stesso…
Laddove non sono riusciti a toccarti
Laddove non c’è da togliere più niente
Laddove sembra vuoto
sembra
Quando ti ho lasciato
Credevo che ti avrei dimenticato
Chi ti sarà mai fedele abbastanza
e come me
ti rimpiangerà per sempre
Chi guarderà la tua gola e scoprirà le lenzuola?
Chi rimarrà con te fino alla fine
e avrà il coraggio di difenderti
Ti amerà senza condizioni
morirà per te
E solo così ti potrà dimenticare

martedì 26 agosto 2008

Lanterne Rosse, Parole Nere di Silla Hicks

Zang Ymou dei miei sogni di tigri e dragoni dice che i diritti umani ci fanno fragili, e forse è vero: solo dalla frusta e dalla paura e dal divieto di pensare cose diverse può nascere la perfetta compattezza di una coreografia senza errori, sbavature, fogli accartocciati sul pavimento e file interi chiusi senza salvarne un rigo, senza rimorsi né rimpianti né lacrime né rabbia: tutto il ciarpame che ci fa copie mal riuscite di dio, foglie umane perdute dentro al vento.
Zang Ymou delle mie notti illuminate di lanterne rosse dice che l’autodeterminazione è stata un regalo cattivo, che non sappiamo usare e di cui siamo indegni, che ci fa angeli caduti che hanno barattato ali di albatro per un bacio allagato di lacrime in cui finalmente annegare: l’eternità per un secondo tra le tue braccia, il nuotatore che potevo essere per quest’uomo che non è più niente.
So che se gli dessi retta, e mi strappassi via una buona volta le tue iniziali dalla pelle, forse rimarrei vivo, ma mi dispiace Zang, non ne varrebbe la pena, no.
Tu credi che la perfezione abbia valore: non ti accorgi che quello che fa i tuoi film immensi è il tuo occhio umano, e il fatto che feriscano e commuovano altri umani: il tuo dio di perfezione non ci crederebbe, ai tuoi combattimenti aerei o alla bellezza di Gong Li, ti direbbe che non sono possibili, che non sono reali, perché non ci sono foreste dove i pugnali volano e solo un pazzo visionario e umano può vederle.
Perché dio non sogna che se stesso, e tu lo sai: e seduto da qualche parte nel suo empireo vuoto quasi sempre guarda da un’altra parte, mentre il sangue si allarga sulle piastrelle del mondo, che sia ebraico o armeno o tibetano non cambia niente, a differenza della pelle ha sempre lo stesso colore, come le divise imposte da ogni tiranno, in ogni tempo e luogo, anche in quello in cui tu ti dici fiero di essere.
Pensi che ribellarsi non serve a niente, Zang, e hai ragione, nel senso che c’è sempre un carrarmato che può venirti addosso, e che non c’è pietà per i vinti, anche se si sono arresi: ma forse non ti rendi conto che il ragazzo di Tienanmen o quello con la bandierina che saluta gli alleati nelle ultime pagine di Malaparte muoiono nello stesso modo, è vero, ma i cingoli che li riducono in poltiglia non bastano, a cancellarli davvero.
Perché quelli che restano li ricordano, Zang, e li ricorderanno anche quando la tua Gong Li sarà una vecchia signora che non può più stregare il mondo scoprendo una spalla, e tu firmerai il tuo ultimo addio, e vincerai il tuo ultimo premio, e io ti guarderò per l’ultima volta in un cinema vuoto, come ho sempre fatto, in questi anni, con le lacrime agli occhi e dimenticando le parole che hai detto oggi, perché puoi dire quello che ti pare, ma il tuo cinema non è una parata di regime, ma una rivolta, la prova vivente che i sogni esistono, e che non c’è dittatura che li possa imbavagliare.
Senza accorgertene, è questo che dici, Zang, questo e non che è bello guardare burattini in fila telecomandati dietro al filo spinato della Corea del Nord : ne sono sicuro, perché ho visto “Non uno di meno” il più grande e sconosciuto dei tuoi film, quello più delicato e meno epico e fuori dal cinema ci siamo sentiti fortunati del tuo rivoluzionario regalo.
Dal villaggio polveroso alla megalopoli per ritrovarne uno: senza eroi né sciabole né salti, solo una ragazzina cenciosa che più che maestra è una capoclasse, la cui unica disciplina non è la frusta ma il cuore, lo stesso che fa tornare un superstite indietro a recuperare i compagni, a rischiare la vita.
Lo so che ci vuoi credere, che il tuo sia il migliore dei mondi possibili, per dormire ogni notte e non pensare di essere come me, perduto come un pacco per il mondo, con il peso delle tue origini e della tua lingua e del tuo cognome, la faccia del buio che ti guarda dallo specchio: so come ci si sente, a sembrare un SS, come la gente ti guarda, io sono nato il 10 novembre del ’72, ma non basta a convincermi di non essere mai stato dalla parte sbagliata, non ho fatto il soldato ma sono un tedesco, anche adesso che sono qui, anche adesso che parlo italiano, e che il suo cuore è l’unica casa che posso avere, l’unica cui voglia tornare, l’unica in cui non sia straniero.
So che hai paura, Zang, paura per tutto quello che sei diventato, paura che tutto finisca, per un carrarmato o qualsiasi altra cosa, il dalai lama o l’America, la storia che non puoi cambiare.
Ma ti prego, Zang, per me e per tutti quelli che hanno volato con la tua tigre, per tutti quelli che in tutto il mondo hanno visto i tuoi sogni e li hanno respirati diventandone schegge, e che se li portano in giro stretti per la mano, non fare l’errore di Leni, non guardare il mondo da sopra una gru per non vederne le ferite che marciscono, per non sentirne l’odore.
Il nostro mondo cade a pezzi, è vero.
E anche il mio cuore.
Vivo di scatolette, non sono più capace di dormire, ma non voglio sonniferi che non mi facciano sentire dolore.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio non sentirlo.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio, non essere così imperfetto, non volere morire né farlo poco alla volta ogni giorno.
Svegliarsi ogni giorno solo perché qualcuno gira la chiave nel quadro.
Senza scegliere di farlo, oppure no.
L’autodeterminazione è il caos, è vero, Zang.
Ma è da là che veniamo, non da un frattale. Per questo pensiamo tutti cose diverse, e le facciamo, e sbagliamo, e poi rifacciamo tutto da capo.
Infinite volte.
Fino alla fine del mondo.
Mentre dio ci guarda.

sabato 23 agosto 2008

Oz di Silla Hicks

Quando sei giovane, e ti senti il re del mondo, e non hai paura di niente perché pensi che dovrebbero essere loro ad aver paura di te, mentre una tegola ti fracassa il cuore senti il dolore, è ovvio, ma sei anche capace di aspettare che si rimargini, di star fermo e buono e non muoverti, finché non passa.
Ma quando ti guardi allo specchio, e ti rendi conto del perché nessuno ti chiama più ragazzo, e la faccia che ti fissa non è nemmeno più la tua, quando sei troppo stanco persino per farti la barba al mattino, e vaffanculo se hai una grattugia di spighe mal tagliate al posto della pelle, e ti infili a tentoni la stessa maglia che portavi ieri ed anche il giorno prima, e vedi un film fino alla fine ma non ti ricordi il titolo e nemmeno una scena, allora è tutta una altra storia, non pensi più che ne uscirai vivo, e nemmeno che ne uscirai più.
E pazienza se la gente pensa che sei forte, che potresti sradicare alberi e abbattere uomini con una testata: pazienza se qualche stronzetta ventenne dice persino che sei bello, con i tuoi occhi allagati di acqua trasparente e vuota, e vorrebbe portarti al letto, anche, come se bastasse scopare per spegnere il cervello: dieci anni fa svuotarsi i coglioni poteva anche bastare, ma adesso no, cazzo, non è più così.
Adesso guardo fuori che sta piovendo e mi sciolgo nell’acqua e non ci sono, o almeno non ci sono davvero.
Nei tergicristalli pezzettini di me attaccati alle gocce,e quando ti deciderai a metterli in ordine, a raccontare com’è andata per davvero.
Ma il fatto è che forse non lo so neanche più, com’è andata, non lo so e non me ne frega e vorrei soltanto che tutto si spegnesse, questa estate e l’autostrada e le code e la gente che va in vacanza, e questo nord che affonda in un monsone adesso, a ferragosto, la tempesta del secolo e io nell’occhio del ciclone, cazzo, almeno potesse portarmi via, su fino al cielo sopra al mondo di Oz per poi lasciarmi ricadere, con la motrice addosso, i miei anfibi che spuntano da sotto alle lamiere invece dei pedalini a righe della strega dell’Ovest e tu vestita come Dorothy che mi guardi stupita, la nostra vecchia Margot come il cagnolino spelacchiato Toto, e pazienza se quello era nero e lei è bianco sporco, chissà se te la ricordi, Margot, o se il tipo ha cancellato anche lei.
Ma invece non succede niente, piove e basta, e né questo né nessun uragano mi portarà da nessuna parte, e comunque sopra all’arcobaleno non ci abita nessuno, anche se io e te ci siamo stati, a volte, e no, non ci credo che non ci torneremo a vita, lui saprà la chimica e avrà una laurea e la faccia di Raul Bova, me l’hai detto ma non ci credo, e vaffanculo a lui e alla sua perfezione e vaffanculo alla sua generosità e alla sua intelligenza, vaffanculo, sì, perché è uno stronzo figlio di puttana sguaramazze del cazzo, e me ne strafotto se non è politically correct, io non lo sono.
Perché è vero che non c’è paragone, stavolta: non ci credo, ma lo so che lui è perfetto, un professionista, che parla una lingua sola e ha una sola patria e una statura accettabile e gli occhi di un colore vero, mentre io…sono solo me.
Un ignorante, una bestia con il cranio rasato e un cuore spezzato tatuato sopra al braccio: non sembro un principe ma piuttosto un wrestler deportato all’inferno, puzzo di fumo e di sudore, porto gli occhi incongrui di un androide e sfioro ogni stipite con la fronte.
Eccessivo, ingombrante, sempre fuori posto, non riesco a trovare vestiti né scarpe e parlo ogni lingua con l’accento sbagliato.
Non ho una patria in cui non sia straniero.
Sono la testa mozzata di Elias il maniscalco, che rotola nella polvere a metà della prima pagina di Q, e insieme le braccia alzate di Elias il marine, che negli ultimi venti minuti di Platoon viene falciato mentre gli elicotteri si allontanano: tutti e due hanno capito troppo tardi che nessuno verrà a prenderli, mentre gli alieni arrivano, e io lo capisco adesso, che finalmente so che ERI TU LA MIA VAZQUEZ, e sai che vuol dire, per me infinitamente più di un ti amo che chiunque può spergiurare.
Vuol dire che tu saresti tornata, sempre.
Saresti tornata, e li avresti fermati, sventagliando a tappeto mentre uscivano dalle sfottute pareti, e mi avresti raccolto sventrato chiudendomi le ferite con le dita.
Ma adesso no: adesso io sono Elias, tutti e due.
E non serve dirti che lui non ha bisogno di te, perché è già il settimo cavalleggeri, l’apprendista con la bisaccia, Chris il superstite, Ripley.
Lo sai, ed hai scelto lo stesso.
Forse, è giusto così.
Io non sono in carriera, non ho soldi né un lavoro buono, non sono un professionista in niente, non sarò mai qualcuno.
Non posso offrirti niente: ho le mani vuote, e tra poco sarò tutto vuoto, potrai gridarmi dentro ma ti risponderà solo l’eco, dovrei farmi una doccia e smettere di piangere, ma non voglio fare né una cosa né l’altra, non voglio più fingere di essere: me ne fotto di tutto questo cazzo di mondo di merda, sì, avete capito tutti, adesso basta, game over.
E vaffanculo se invece dovrei svegliarmi riposato tra quattro ore e sistemare il disco e ripartire, dicono alla TV che non dormiamo e guidiamo ubriachi fradici, cazzo, bastasse bere e non dormire per essere come sono io adesso, due mani sullo sterzo senza più né testa né cuore, carne da macello di cui non frega niente a nessuno.
Loro che ne sanno, di com’è stare soli, che ne sanno di com’è, quando i chilometri sono l’unica fottuta speranza che hai, di allontanarti da te, perché non hai niente a cui tornare.
Che ne sanno di com’è, quando non te ne frega niente di niente, e non dormi per niente, altro che quattro ore, perché sgrani gli occhi solo sull’incubo in cui sei da sveglio: che ne sanno di com’è, quando la strada ti ha triturato, e sei solo gli avanzi di una bestia investita nel retrovisore.
Se mettessi la strada che ho fatto negli ultimi sedici anni un chilometro appresso all’altro, credo che ne uscirebbe un nastro lungo da infiocchettare il mondo dieci volte: finalmente un bel regalo, da lasciarti in cima alle scale un’alba senza sole, una lettera d’amore che non sia solo parole messe in fila una notte che le lacrime ti hanno lasciato abbastanza occhi per riuscire a scriverle senza mangiarsi l’inchiostro, oltre che sfilacci di quello che resta di te.
Si, lo so, in questi giorni non lo scarteresti neanche, ma dovrà pur finire, e allora io sarò qua, se ci sarò ancora.
E ci sarà anche il mondo, questo e quello di Oz, dove tornare.
Weh spricht vergeh, no, non è vero che passa, vaffanculo Nietzsche, lurido nazista del cazzo, non è vero che passa, ma io sono qui, e sono i due Elias in uno, non mi serve la scure e nemmeno un M16, vienimi addosso, non mi fai paura.
Stanotte niente quattro ore di sonno, e nemmeno di pianti, stanotte che la luna è uno spicchio appena e io sto qua come Ciaula e tutto il mondo è un’immensa miniera nera.
Ma la luna c’è, comunque, e io so che esiste.
Oz è ancora là.
E anche tu ci sei, sotto la mia pelle, nelle mie ossa, nel mio sangue.
Sei la mia Vazquez, e tornerai a prendermi.
Un attimo prima che arrivino, entrerai sparando e li terrai lontani abbastanza perché non mi facciano a pezzi, e il tuo sguardo sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che tutto sfumi sui titoli di coda.
Prima di svegliarmi in un mondo senza dolore né rabbia né colpe, in cui c’è una strada di smeraldo, in cui non mi lascerai.

sabato 16 agosto 2008

Che fine ha fatto Mr. Y di Scarlett Thomas (Newton Compton, 2008)

Chissà perché quando penso a un libro maledetto, subito mi viene in mente il Necronomicon di H.P. Lovecraft, un’opera che lo scrittore di Providence ha consegnato alla storia della letteratura come gigantesco contenitore di abominii che viaggiano nel tempo e lo spazio per dominare mondi e creature. Ed è l’unica associazione che ho fatto, forse l’unica che poteva saltarmi in mente, leggendo lo splendido libro di Scarlett Thomas edito dalla Newton Compton dal titolo Che fine ha fatto Mr. Y. E lo Spazio-Tempo, le sue dinamiche, il viaggio in universi paralleli, e l’incontro con divinità mostruose (nell’accezione latina di monstrum come ciò che appare straordinario) è il filo conduttore delle vicende che sorreggono la vita narrativa della protagonista Ariel Manto. Giovane ricercatrice della British University, che a seguito della scomparsa del suo mentore, e al crollo di una parte della sua università, viene diretta dal Caso (in questo caso specifico il suo anagramma Caos è molto più pertinente) in un negozio di libri usati dove trova il tassello mancante per una sua ricerca su un autore singolare e misterioso come Lumas: ovvero la sua ultima opera dal titolo per l’appunto Che fine ha fatto Mr. Y. Questo scrittore, la cui vita era stata avvolta più da zone d’ombra che da una fulgida e trasparente esistenza, aveva sviluppato una serie di esperimenti sul potere della mente e su come grazie a singolari e potentissime energie mentali eteriche insite in ciascun individuo umano, ovviamente con il supporto di una particolare mistura la cui ricetta veniva indicata all’interno del grimorio maledetto, il viaggio in dimensioni diverse dalla nostra non solo risultava possibile, ma addirittura con la debita pratica si riusciva a entrare nella mente di altri soggetti sia persone che animali modificandone comportamenti e scelte, ma anche spostarsi (attraverso la Pedesis) nel tempo per modificare la Storia, le Storie. Il mondo in cui tutto ciò è possibile nel libro si chiama Troposfera, e il suo Dio-Guida è Apollo Smintheus, mezzo uomo e mezzo topo, divinità pagana venerata da uno sparuto gruppo di seguaci (più o meno sei persone che a lui hanno dedicato un culto in una piccola cittadina di provincia del nord-america) che orienterà le azioni di Ariel Manto salvandola da agenti psichici dell’Intelligence Americana facenti parte di un progetto segretissimo chiamato Starlight per il controllo delle menti (la Cia ma potrebbe essere tranquillamente l’FBI -ndc), desiderosi di impossessarsi della formula forse per creare, chissà, un super-soldato. I punti di forza che rendono affascinante un personaggio come Ariel Manto è il suo appeal da bella tenebrosa, e sessualmente famelica, con un pizzico d’aria bohemien che non disturba affatto. Le peculiarità che rendono completo, avvincente, godibilissimo questo lavoro, è che con assoluta disinvoltura si parli di Deridda, Einstein, e Heidegger, sviluppando per quest’ultimo l’ipotesi dell’esserci (Dasein) come perfetta gestazione causale di effetti nella realtà da parte del linguaggio, ovvero una vera e propria fenomenologia della liberazione umana, da condizionamenti, imposti al di fuori delle proprie coscienze ed esistenze. Chicca delle chicche, la teorizzazione da parte di una scienziata, una delle protagoniste secondarie dell’opera, con considerazioni scientifiche fatte in maniera davvero puntuale e rigorosa ,della fisica post-strutturalista. Non cedete alla tentazione,dopo aver letto questo libro di pensare a Matrix… è veramente tutta un’altra storia! E poi …siamo sicuri che Scarlett Thomas abbia scritto quest’opera come frutto di pura invenzione?



Titolo originale: The End of Mr Y.
Traduzione di Milvia Faccia

giovedì 14 agosto 2008

L'onda di Silla Hicks

Mi abita il dolore, in questa estate che è l’estate dei giochi di Pechino, di Free Tibet e degli atleti che hanno aspettato 4 anni i 10 secondi scarsi in cui correre i 100, ma anche l’estate della Petrella, che smettendo di mangiare si è illusa di perdere tutto il peso dei suoi anni di piombo.
Mi abita il dolore, in questa estate che è l’estate del vecchio Peter Pan Capanna, che parla in un paesino della Puglia illudendo e illudendosi che questa Italia abbia ancora dei sogni, di Zucchero che canta stasera allo stadio, e di Jovanotti che canta ovunque la nostra canzone.
Mi abita il dolore, in questa estate.
Mentre il mondo non finisce.
Ma è ancora la nostra canzone, perdio, e questo nessuno me la può levare, nemmeno te.
E me ne fotto di quello con cui l’ascolti adesso, è ancora la nostra canzone, cazzo, anche se è ancora quest’estate, e tutte le parole che so non bastano, a raccontare cosa sia il dolore.
Perché questa è anche mein sommer, la mia estate, l’estate di quest’ uomo che sta seduto davanti al PC stasera e non ha più faccia, ma solo lacrime che lo guardano dallo specchio, un occhio per ognuna, un caleidoscopio di sofferenza che è un mare in cui non sa né vuole più nuotare.
Nel 1999, quando avevo il cuore spezzato ma non sapevo ancora cosa significhi non averne che brandelli stretti tra le dita, mi sono aggrappato alla speranza dentro alle parole di Giuseppe, se resti vivo almeno saprai come va a finire.
Eravamo sul lungomare di Gallipoli, e così ubriachi che davvero non so come ho fatto, qualche ora dopo, a guidare fino a casa la mia – la nostra, ancora, lei – vecchia Panda.
Giuseppe aveva ancora i suoi capelli lunghi e soltanto la cagnetta Matilde ad aspettarlo a casa, sembrava ancora un tossico ma era già – da quasi dieci anni, penso - un bravo poliziotto, e forse per questo è stato capace di trovare le parole - le uniche che capissi - per farmi arrivare fino a domani.
Ci ripenso, stanotte, che Giuseppe porta i capelli cortissimi ed è a casa con la sua compagna e ha smesso di sbronzarsi e non può più passare la notte con un amico, risento la sua voce roca di Camel come una cantilena, e, mi spiace, non funziona più.
Mi spiace, Giuseppe, sono troppo stanco.
Sono così stanco che non so se ce la faccio, a tenere strette le tue parole fino a domattina.
Si, è vero, lo so che d’amore non si muore.
Ma ho capito anche che ad un certo punto ti scordi che può non essere sempre così, dimentichi come stavi prima, e allora smetti di nuotare per tornare a riva, e il mare che hai dentro t’inghiotte, e sputa via quello che resta di te triturato dalle eliche delle barche, inservibile.
E a quel punto, comunque, non hai più gli occhi, per vedere come va a finire.
E il dolore non è passato. Si è solo ritirato. Lo sai, e sai che tornerà, di nuovo. Anche se non sai quando, né come.nemmeno perché.
La scorsa settimana, Caterina – quella che ha il padre che vende scavatori, che ho conosciuto quando guidavo ancora le bisarche e che conosci anche tu, perché i casi della vita sono strani– mi ha regalato una maglia della JBC con un fantastico disegno in 3D che sembra fatto col Cad tanto è accurato, una ruspa con la pala alzata, insieme potente e docile, domestica, forte da maciullare un carro armato ma nata per scavare pozzi e fondamenta di case.
Ci ha messo tanto a trovare la mia taglia, e me l’ha data incartata, una specie di pacchetto, e nel darmelo mi ha fatto una specie di carezza con la punta delle dita sopra al braccio, tu sei così, mi ha detto, sei un pezzo di pane, anche se a vederti fai paura.
E poi, si aggiusta tutto, credimi, ha aggiunto, perché ha sentito l’odore della mia sofferenza nell’aria anche senza saperne niente, per quell’alchimia miracolosa che rende omniscente la specie umana: non so se sia stato questo a frantumarmi, ma non le ho detto neanche grazie, l’ho abbracciata e io che sono due metri mi sono accartocciato sulle spalle di questa ragazza che non arriva a uno e settanta nemmeno con le scarpe con le zeppe che porta tutti giorni, squassato da singhiozzi che non riuscivo a fermare.
Lei è rimasta ferma, nel mezzo del piazzale con questo gigante addosso che non sapeva smettere di piangere nè pensare alla figura di cazzo o alla vergogna o a niente altro, accarezzandomi i capelli come una madre , anche se ci togliamo due anni appena.
Non mi ha chiesto niente, Caterina.
Non le ho detto niente.
Ma ho capito in quel momento di non sapere più nuotare.
Di non avere nelle braccia la forza per arrivare a riva, e nella testa quella di continuare a inspirare e espirare senza ingoiare l’acqua.
Di non sapere più farlo, sì. E forse di non volerlo nemmeno più.
Di sentire il blu sotto di me allargarsi, e volere solo smettere di pensare. Spegnermi. Finchè non ti ricorderai che esisto, quando sarà, se sarà.
Perché non riesco a rimanere vivo, sai, Giuseppe, non ci riesco ad aspettare come andrà a finire. Non riesco a vivere, e vaffanculo se non morirò nemmeno, l’importante è che io non sia vivo quando la prossima onda arriverà e mi stritolerà di nuovo, perché così non potrò sentirla, e si prenderà solo una scatola vuota.
Perché arriverà, Giuseppe, arriverà e mi porterà via e mi farà a pezzi sugli scogli, e poi si ritirerà, e tornerà ancora.
Così, per tutto il tempo che lei ci metterà a tornare.
Anche se di me rimarranno grani di sabbia, anche se i vermi mangeranno il resto prima che lei torni, anche se il fuoco di un altro traforo mi ridurrà in cenere o un Boing impazzito si schianterà contro il mio camion o un palestinese ci si farà esplodere accanto, anche se rimarrà uno solo dei miei capelli o un frammento delle mie viscere, anche allora, l’onda arriverà, e mi porterà via, e poi si ritirerà, e tornerà ancora.
Finché lei non tornerà, e mi raccoglierà come una conchiglia sulla spiaggia, e mi appenderà di nuovo al suo collo, e vaffanculo dove e con chi è stata fino allora, vaffanculo dio, fai che cazzo vuoi, ti regalo la mia anima ma ti prego in ginocchio di farla tornare, un solo giorno e poi basta, poi regalami a tutti i supplizianti che vuoi, mi cuciano gli occhi di filo spinato e la bocca di spago, tutto l’eterno di torture per un solo minuto nelle sue mani.
La bottiglia di vodka davanti a me è chiusa.
L’ho comprata, ma non l’ho aperta.
La guardo, e la rimetto in frigo.
Sono troppo vecchio per avere ancora queste illusioni. Troppo vecchio per credere di poter imparare a nuotare di nuovo.
Traum in tedesco significa sogno. In italiano, trauma è una brutta cosa, dopo la quale non sei più quello che eri prima. Forse, c’è già tutto nelle parole. Forse, c’è sempre un trauma dentro ai sogni.
Per questo, ti scordi come farli. Per questo, ti scordi di sapere nuotare.
Ho sognato la vita sognata dagli angeli. Ma adesso sono sveglio, e sono stanco, cazzo, sono stramaledettamente stanco.
L’onda è di nuovo vicina, ne sento il fragore assordante di silenzio, e so che sarà peggio dell’altra volta perché ogni volta è peggio, ma chiudo gli occhi, e mi passa attraverso, peso centodieci chili ma sono solo una pagliuzza, che può trascinare dove vuole.
Gli scogli sono rasoi, nel buio. Ho gli occhi chiusi, e non posso vederli, mi rannicchio su un fianco con la tua giacca di pigiama sulla faccia, c’è il tuo odore a proteggermi, e non ho più bisogno di ricordare come nuotare.
L’onda è fredda, densa, nera. L’onda si ritira, così potrà tornare.
Dio, lo so che quest’uomo non vale un cazzo, rispetto al Tibet o alle Torri o a Guantanamo o all’Olocausto. Dio, lo so che quest’uomo non vale un cazzo, rispetto a tutti quelli che muoiono ogni giorno, o sognano ogni giorno, dovunque siano.
Ma quest’uomo è qui, in questa cazzo di estate, e muore senza morire ogni secondo.
Dio, ti prego, fammela tornare, solo un minuto, che dia un senso a tutto.
Ti prego dio, un minuto solo. Soltanto un attimo. Prima che l’onda mi porti via di nuovo. Prima che io non senta nemmeno più dolore, e ci sia solo buio, per tutto il resto del tempo. Per sempre, fino a che non la farai tornare.

lunedì 11 agosto 2008

Basta


L'altra notte ennesima STRAGE sulle strade, che ha coinvolto 9 ragazzi di cui 7 i morti e una ragazza lotta per sopravvivere!
Notizie che ti lasciano nella tristezza più assoluta, anche se non conosci i diretti interessati, ma che ti fanno fermare a pensare.... Ormai quando esci la sera con la macchina non sai più se riesci a tornare a casa sano e salvo. Ma ormai che si può fare?

(Queste non sono parole mie...ma sono di Matteo Gennero ovvero www.matteogennaro.blogspot.com. Aderisco alla sua "campagna" di sensibilizzazione)

Mein Sommer di Silla Hicks

















MEIN SOMMER

Non so più nuotare

vado a fondo

guscio di noce bucato

non ci sono più corsie nè blocchi

cloro che mi bruci gli occhi

non ci sono scogli

nè onde, nè alghe

il mare si è asciugato su questo pavimento

è soltanto una pozza

da cui lascio orme

di fango nero.



Fai finta

che le tracce dei miei anfibi sfondati

siano briciole di pane

dentro alla foresta incantata

come pollicino

vienimi a cercare

prima che sia buio

per sempre.




fonte iconografica www.stoa.usp.br

mercoledì 6 agosto 2008

Il tango delle fate di Riccardo Reim - Hacca editrice


Tullio Pinelli è uno dei più illustri e importanti sceneggiatori italiani. Ormai è uno dei “mammasantissima” dell’olimpo culturale italiano, riconosciuto e certificato. Lo ricordiamo per aver collaborato con Federico Fellini alla sceneggiatura dei film Luci del varietà, Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, Il bidone, La dolce vita sino al mitico trittico di Amici miei per Mario Monicelli. Tutte cose che al cinema o in tv in molti, moltissimi hanno potuto veder e, gustare, partecipando emotivamente alle vicende degli splendidi personaggi, singolari, un po’ fuori le righe, da Pinelli creati. Ma Pinelli lo ricordiamo anche per bellissime prove di narrativa come La casa di Robespierre (Sellerio) o l’ultimissimo Innamorarsi, una raccolta di racconti per la neonata Edizioni Controluce. Partiamo proprio da Pinelli perché è stato forse l’unico, o uno dei pochissimi, a fondere diversi registri, quello cinematografico, teatrale, e scritturale ottenendo risultati singolari per freschezza e vivacità. Sembra che nella più immediata contemporaneità, per certi aspetti un suo degno erede, sia proprio Riccardo Reim nel suo interessante Il tango delle fate edito da Hacca. Scrittore, regista, attore ha avuto l’opportunità con questa sua nuova avventura narrativa di mostrare come sia possibile giocare sulle diverse combinazioni di esistenze possibili, oggi più che mai nell’era della trasformazione e della mutazione. L’oggetto del “massacro” è l’Io, anzi uno dei possibili Io del protagonista, in bilico sul baratro di una non-presenza nella realtà, di una non-aderenza circa la ricerca di una sua identità… necessaria alla resa dei conti? Problemini di tal sorta li lasciamo alla psicologia da salotto. Già perchè il/la protagonista (magistrale la tenuta di stile nel destreggiarsi in un mondo misero e piccolo piccolo, grigio, bastardo e volgare, effettuando un vero e proprio salto di paradigma sulla sessualità, divenendo una voce poli-sessuale a tutti gli effetti) , Caminito (traduciamo sentiero) danzatrice/danzatore di tango, e Bernadette, allucinazione psico-mistica con evidente riferimento alla bambina di Lourdes, sono personaggi d’un’opera aperta e forse tutta ancora da scrivere, che nulla hanno da invidiare ai 6 personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Stessi vuoti, stesse penombre, stesso riso amaro, stessa disperazione. Caminito, animaletto strano, voglioso di una vita normale, di un amore normale, di affetti e oggetti quotidiani normali, anche a costo di tagliare con un trancio netto ,una parte di sé. Non ci vedo nulla di un’interiorizzazione da parte di Reim del declino post-industriale dell’individuo o dell’alienazione da abitante dell’oggi turbo-capitalistico. Anzi, ci vedo un godere meraviglioso della e per la vita, nonostante tutto, nonostante le privazioni, le amputazioni, le rinunce, le preghiere, e nonostante tutto il ben volere delle “fate” e la protezione di una grande, gigantesca, infinitamente ed eburneamente amorevole “Signora” …. Una ricerca forse del Bello da parte di Riccardo Reim, senza se e senza ma, che a parte le macerie, vuole portare alla luce anche nelle piccole cose di ogni giorno: “ La domenica, tutte le patriarcali famiglie che uscivano dalla messa al Duomo o alle vicine chiese di San Bernardino e San Domenico Maggiore, acquistavano immancabilmente le otto, dieci, dodici paste destinate a dare la ghiotta nota finale al pranzo della festa: paste gigantesche, gravide di crema e di panna, lustre di glassa, spolverizzate di vaniglia e cacao. Sfogliatelle scagliose che crocchiavano come vetro sotto i denti mentre il ripieno di ricotta e canditi si liquefaceva sulla lingua; morbide ciambelle che si sfarinavano addentadole, cosparse di zucchero granellato e uvetta; crostate di pastafrolla ricoperte da un fitto strato di confettura che impiastricciava le labbra; croccanti al miele tempestati di mandorle e pinoli …” Cos’altro da aggiungere…

martedì 5 agosto 2008

Maurizio Leo e il suo book trailer








book trailer del libro di Maurizio Leo "Del Gatto delle fusa del suo strusciamento" edito da Lupo editore regia Mangialardo Mazzotta voce di Massimo Colazzo

domenica 3 agosto 2008

Stupid ...but real!




- Prima di decidere. vorrei farti notare una cosa ... osserva bene dunque! -
- Anche tu fammi un piccolo favore, non volermene ... soppesa il Silenzio se puoi!-
- Tutto ciò che desideri, mio caro amico!-
- Vedi queste cerniere ... sono campi seminati di carne e sangue, dove ogni attimo di luce, lo si paga con sofferenze e terrore...
coglierne l'essenza è facile, ma uscirne è impossibile! -
- Io non credo ai fantasmi! -
- Io sì invece! -

fonte http://static.howstuffworks.com

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