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martedì 12 maggio 2009

Il giorno prima della felicità di Erri De Luca (Feltirnelli). Rec. di Vito Antonio Conte

“Ora scrivo le pagine sul quaderno a righe mentre la nave punta all'altro capo del mondo. Intorno si muove o sta fermo l'oceano. Dicono che stanotte passiamo l'equatore”. Tanto del molto che ha pubblicato Erri De Luca ho letto. Ne ho scritto già in un pezzo dello scorso anno per un quotidiano del Salento. Non mi ripeterò. Ché replicare, come ho diffusamente lasciare trasparire, non mi è mai piaciuto. In questa domenica in cui il sole si mischia a pioggerella sottile e gelata, a un ciclamino rosso d'amore, alle note de “I Giorni” di Ludovico Einaudi, alla rilettura di un post (commenti inclusi) su un blog di quasi un anno addietro, lascio l'ultima pagina dell'ultimo libro di De Luca per il meriggio (che ancora meriggio non è nonostante i mandorli già biancheggianti di nuovo), dopo un'ottima spigola al sale pasteggiata con un buon vino. Lo faccio apposta, ché -lo so- sarà dolce la fine di questo libro. Dolce come un dessert alla fine di un pasto frugale essenziale e giusto. “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli, € 13,00) è l'ennesima scrittura di Erri De Luca, un romanzo breve di cui non può dirsi ch'è un racconto lungo, una narrazione di una vita lungo più vite, attraverso più epoche, toccando luoghi e storie, penetrando il segreto di più uomini, disvelando le storie che piacciono a me, quelle minime e straordinarie mai scritte nei libri di storia, lasciando misteri appena accennati pronti a schiudersi in altre scritture, mescolando pensieri e fatti pienamente vissuti e soltanto sfiorati. Un capolavoro! L'incipit lascia spazio alla casualità: “Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone” e il caso è padrone assoluto del seguito: tutto accade (apparentemente) perché qualcos'altro che non appartiene a chi vive quel momento è accaduto o non si è verificato. E, come sempre, una scelta di fare o non fare, s'inserisce pienamente nel disegno che qualcuno che non abita questa terra ha tratteggiato. L'ultima volta che ho scritto di un libro (“I Bruchi” di Giovanni Bernardini), ho scritto di guerra, di fascismo e... d'ignoranza (ché in quel libro anche di ciò si narrava). Questo libro (e, se volete, è un altro caso) tocca (in maniera totalmente diversa) gli stessi argomenti: la seconda guerra mondiale, il nazismo, la liberazione di Napoli a opera dei napoletani (“Quando spuntano sei persone, tutte in una volta, allora si vince”), prima ancora degli americani... E l'amore: il primo, l'unico, quello per cui vale la pena dare il proprio sangue, per scatenare il pianto, ché soltanto le lacrime possono liberare dalla pazzia. È la storia di un bambino (cui De Luca affida l'Io narrante), nato senza genitori, che cresce durante la guerra, che impara il mondo dal mondo di Don Gaetano e dai libri usati di Don Raimondo, che diventa uomo quando incontra la natura che l'aiuta a scoprire la sua natura. Che s'innamora di una bambina che vede attraverso i vetri di una finestra e che poi ritroverà da maggiorenne; meglio: dalla quale verrà ritrovato e che gli chiederà (senza parlare) il sangue dopo aver donato a lui il suo sangue, quello del primo amore, in un patto che sarà spezzato soltanto dal coltello che reciderà un'altra vita e, con essa, ogni legàme con un passato di tristezze infinite e cieli senz'altro colore che non fosse quello degli scantinati dove ripararsi dai bombardamenti e dall'idiozia dell'ignoranza (una volta ancora!) che sempre ha messo e continua a mettere l'uomo contro l'uomo. La guerra: quel respirare a fatica dove ogni regola è capovolta, dove la natura è capovolta, dove qualunque dio è buono per essere pregato o bestemmiato, quasi come quando guerra non c'è... “Insieme al buono cresceva il peggio. Una brava persona si metteva a prestare a usura, una ragazza di buona famiglia si metteva a fare la puttana per i tedeschi. Uno che aveva il titolo di guappo era il primo a scappare al ricovero. I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone. Chi teneva qualcosa mangiava di nascosto. I tedeschi fecero una sceneggiata: forzarono un negozio, poi invitarono la gente a saccheggiarlo. Sulla folla che si era buttata a prendere la roba spararono in aria e ripresero la scena dentro una pellicola. Serviva alla loro propaganda: il soldato tedesco interviene a impedire il saccheggio. Sono fatti successi, guagliò, proprio in una di queste belle giornate di settembre”. Poi, in ogni guerra, c'è chi vince e c'è chi perde. E non sempre la vittoria è dei giusti. Chi faceva la puttana per i tedeschi, ha continuato a farla per gli americani. E non parlo solo di femmine (se metafora vuole). Non sempre vince la libertà. E cosa dire di tutti quelli che nella stessa guerra sono stati dalla parte dei tedeschi e dei fascisti e quando per loro stava per finire male sono passati dalla parte degli americani? Non lo so? Meglio: lo so, ma non riesco, non riesco proprio a dare giudizi. Specialmente su qualcosa che non ho vissuto. Troppo facile dire a posteriori qualunque cosa. Troppo facile parlare... Oggi tutti parlano, c'è libertà d'espressione (grazie a dio!). Difficile è dire e fare quando non c'è libertà. C'è che la libertà, anche quando è dato acquisito (in particolare quando è costata la pelle a altri), bisogna rispettarla ogni giorno, per ri-conquistarla. E la libertà diventa niente se niente hai fatto per meritarla. “La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”. Già, la felicità... “il più speciale dolore, una fitta agli occhi e uno squaglio di cioccolata in bocca”. Ho avuto paura di dire la mia felicità. Ho cercato di farlo. Ho reso cenni della sua grandiosità. Questo ho fatto. Il miracolo è cosa rara. Raccontare è ripetere il miracolo. Il miracolo s'è ripetuto. La paura continua a abitare in me ogni volta che la grazia mi tocca e mi chiedo: la felicità è cosa da dire? “Sì e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. Riporto frasi e mi accorgo che, mai come “Il giorno prima della felicità”, questo libro sarebbe da trascrivere tutt'intero, ché ogni pagina contiene dei righi, un dialogo, un pensiero, qualcosa, almeno una parola che può spiegare un senso, piegare un dolore, dare una ragione, dire di un errore, farti toccare un sogno, cullare una speranza, annegare in un ricordo, salvarti da una deriva... per questo (e per molto altro) ho parlato di capolavoro, ma soprattutto perché si vede che De Luca è riuscito a penetrare nella formula (magari tradotta dall'aramaico e combinata con le esistenze che ha saputo ascoltare, vedendole poi attraverso la sua, intanto che su qualche vetta alpina la neve ha dato quel nitore alle cose, felicità compresa, che pochi sentono e vedono, rendendole uniche e irripetibili) che fa di uno scrittore uno scrittore immortale: quella formula che generosamente svela (ché tra conoscere e vivere ci passa l'Orient Express), regalandocela: “Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. E quel che c'è oltre si può soltanto intuire, ché risiede al di là del limite visibile tra l'azzurro abbacinante del cielo e la vastità sconvolgente del deserto. Puoi fare unicamente una cosa per avvinarlo: muoverti lentamente coltivando pazienza. Con ogni mezzo, meglio se a piedi, ma che viaggio sia. E, prima o poi, affrontare quello vero. “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Questo libro è un viaggio senza fine: sai dove comincia, le tappe sono scritte da qualche parte, a un certo punto arriverà la felicità, forse lo capirai il giorno prima sì da poterla accogliere, ma la fine non dipende da te. “Dicono che stanotte passiamo l'equatore”.

Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli


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