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domenica 25 ottobre 2009

Polvere d'ombra e d'amore. Silla Hicks sulla poetica di Vito Antonio Conte

















Lo dico una volta per tutte, affinché sia chiaro, con buona pace di chi vorrebbe che dicessi ciò che va detto, e non ciò che mi passa per la mente, e che quindi credo – per un secondo, magari, ma è sempre meglio di niente - vero. Io sono arrivato al quarto di un Istituto d’arte. Non sono un critico, né uno scrittore. Sono – fieramente, chè così mi guadagno il pane, e pago a rate la vita di merda che ho e quella meravigliosa che ho avuto – un camionista. Un operaio. Provo soltanto a scrivere e a leggere, non siedo dietro una cattedra. Non ho schemi da seguire. Potrei aggiungere, grazie a dio, ma sono – almeno tendenzialmente – un ateo. Quindi: niente dio. E poi: sono 1,97, sono mancino, ho le spalle di un armadio e non entro nelle giacche. Porto T-shirt nere e lise dai cattivi lavaggi nella scalcinata lavatrice di mia sorella. Ho 10 su 10, ergo: niente occhiali. Tutto sono – e tutto sembro – fuorché un intellettuale. Quando entro in un museo o in una libreria, quelli che dicono di esserlo mi guardano con schifo. Che cazzo vuole questo qui, con le sue braccia tatuate e i capelli a zero, che gira tra gli scaffali e s’inchioda davanti ai fiamminghi, o a Mapplethorpe – straordinaria mostra, quella a Firenze, quest’estate, peccato il costo del catalogo, mi sarebbe piaciuto comprarlo - che cazzo può capirne, come cazzo fa a parlarne. Che cazzo ne sa, questo qui, che non ha la maturità classica né una di quelle lauree con cui non si trova (né si cerca) lavoro, questo qui, che si alza alle quattro e un quarto, e dorme nella motrice e si lava con l’acqua di una bottiglia di plastica, questo qui che non ha il profilo su facebook né naviga in rete, che legge a casaccio quello che gli capita a tiro e vede film di guerra e non gliene frega un cazzo di fare reading né di contare quante volte esce il suo nome su google. Sacrilegio, che si permetta un’opinione e la difenda e se ne sbatta, soprattutto, di come la prenderà il resto del mondo, che sputi sullo status quo e sugli ipse dixit, che non riconosca niente di sacro, a parte Leonard Cohen, Abel Ferrara e Philip Roth.
Nessuno che pensi, per una volta, che ne capisco il cazzo che posso capire, perché sono un essere umano, e ne dico il cazzo che posso pensarne, per la stessa ragione. Quasi che l’arte abbia bisogno di iniziati, proprio l’arte, ché se ha un fine è di raggiungere più gente possibile, non solo chi si avvolge di termini astrusi come di filo spinato per tenere fuori il fragore del mondo, re nudo dentro ai suoi damaschi invisibili. E la poesia, poi, è il sancta santorum: entrarci, io , coi miei anfibi e il mio accento, non può che essere profanazione. Non so né m’interessa sapere se è vero: la penso come Ulisse, si deve andare avanti finché c’è mare. Punto. Ma so che l’ho letto facilmente, questo libro, che è solo versi, e densi come sangue, taglienti per via delle macerie di ricordi che trasportano mentre il vuoto nero risucchia via tutto, tagliandoti via le dita. Questo libro che è diario del proprio fieri doloroso, il dolore del distacco, della perdita, e vaffanculo se raramente le dà un nome. Perché a lui – l’uomo che lo scrive - manca casa, che trasfigura in un presepe scabro ma conosciuto, la scatola di latta dei suoi tesori da bambino, bottoni, pezzi di spago, sì, ma comunque prodromi di un universo possibile che invece è stato una sòla. Partire, andarsene, il Nord freddo e nebbioso, da cui tornare per le feste e i funerali dei parenti : la morte della zia, definitiva come quella della propria infanzia. E poi l’amore, che ha perso o non ha avuto il coraggio di prendersi, lacerato dall’incertezza, deve aver tentennato finchè poteva, e adesso non ha che cenere della fiamma che non ha visto bruciare: quanto è vero, il mio tedesco, zwei e Zweifel, due e dubbio, hanno la stessa radice, inevitabilmente l’amore è ignoto e scelta, tormento, ma solo quando non si è vissuto diventa insopportabile angoscia davvero. E adesso è tardi, adesso ci sono solo i cocci della memoria a farti compagnia, adesso c’è solo il suo sguardo che riesci a ricordare, e finalmente lo capisci che sarebbe stato infinitamente più dolce vivere tutto, e fartene fare a pezzi, anche, chè almeno sarebbe stato vero. Perché, se l’amore non è tendere alla bellezza ma costruirla, giorno dopo giorno (Platone), allora vaffanculo se quando è finito anche tu sei finito, perché c’è stato, c’è stato, cazzo, e qualsiasi prezzo non è stato troppo alto per quello che ti ha lasciato. Mentre non c’è niente di più straziante di non aver avuto il coraggio di provare. Sia lode al dubbio, sì. Ma non quando c’è di mezzo l’amore. Mi ha consolato, la fine, a valle del dolore, della malattia e della morte, la pace verde dei giusti, cui so di non aver diritto, ma pazienza, è bello sapere che ci sarà, per qualcuno. È questo che mi resta, di questo libro, che è tutto una sinestesia sofferta come se davvero vomitato durante il viaggio di una vita e delle sue fermate, in cui l’uomo è malefatto condannato all’imperfezione e ai suoi tormenti, e niente è mai quando e dove doveva essere. Questo, e la dolcezza con cui il suo autore lo consegna al lettore, invitandolo a chiedersi non “cosa avrà voluto dire” coi suoi versi, ma “quanto è disposto ad ascoltare”. Della sua voce, sì. Ma anche, soprattutto, del fragore del mondo.

fonte iconografica da http://www.summagallicana.it/lessico/s/Sirene%20e%20Ulisse%20di%20Herbert%20James%20Draper.jpg

l'opera qui riprodotta è di James Draper

2 commenti:

  1. sei sempre grande silla e scusa se te lo dico che te lo dico a fare
    Maria

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  2. ah ah. la sintesi di questo pezzo è "cazzo". Molto divertente: tanto divertente quanto poco serio. oltre tutto, noto una sconvolgente somiglianza tra il modo di scrivere/camuffarsi di silla X e quello di un altro soggetto notevolmente autoreferenziale stanziato a Lecce. Sarà che sbaglio? Non credo, ahimè.

    angelo a. petrelli

    RispondiElimina

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