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sabato 30 gennaio 2010

Tutto questo silenzio di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo (Besa) visto da Luisa Ruggio

C’è un passaggio cruciale nel nuovo romanzo di Elisabetta Liguori scritto a quattro mani con Rossano Astremo ed edito da Besa, se fosse un film sarebbe una sequenza chiave: Federica e Mirko, i protagonisti, sono a letto, nel sonno coniugale - praticamente non si parlano da un pezzo, teoricamente la loro gestualità è un monologo ventriloquo - durante il quale lei accusa un crampo alla gamba e come d’abitudine compie l’attraversamento della distanza mostruosa che separa la coppia, la coppia venuta dalle rapide di un amore poi naufragato in un’involuzione progressiva, passiva, per affidare alle mani di lui la soluzione, l’interruzione del dolore, dal momento che nonostante “Tutto questo silenzio” - come denuncia il titolo dell’opera - sa come quel polpaccio va toccato. “La tocca come a dirle: sono qui. Lei allunga la gamba verso il marito, senza girarsi. Nel solito punto. Ecco, lì. Mirko le prende il polpaccio con entrambe le mani, mentre si sistema a sedere meglio, a gambe divaricate. Il silenzio si riempie di fruscii (…) Lui tira il piede di lei verso il basso, compie alcune torsioni con la sottilissima caviglia che gli s’abbandona nelle mani (…) Alla fine sorride di stanchezza. (…) Il tempo sembra avere senso solo se si ha sonno.” Ed eccola qui la verità (vi prego, n.d.r.) sull’amore. La sterzata, la scrittura, prima ancora del mestiere e il suo raziocinio necessario. Liguori-Astremo non descrivono, cercano di dire come stanno le cose. Raccontano una storia liberandola da ciò che si potrebbe dire di essa: la decadenza di una famiglia del Sud, i sit-in di protesta, le badanti che sognano di diventare mogli, le mogli che sognano di scappare, l’adolescenza che rifiuta il cibo mentre si sovralimenta, subliminalmente, di televisione, le marchette a buon mercato per coprire il tanfo di un’intimità andata a male, il marcio di un delitto banale, la complessità del melting pot suburbano e carcerario, la perdita della bellezza, l’amore quando le parole finiscono. Raccontando tutto questo, gli autori di questa storia commovente per la sua durezza e il suo minimalismo mai prudente, non suggeriscono al lettore come si dovrebbe sentire leggendo, né quando dovrebbe emozionarsi, lo costringono ad attraversare lo specchio. Per entrare in un mondo le cui meraviglie hanno perduto smalto e sono diventate indizi del sommerso.
Ci sono riusciti miscelando le imbastiture necessarie all’organizzazione interna di un romanzo scritto da due penne profondamente diverse. Una diversità che si può rintracciare smistando le voci di tutte le letterature e la musica precedenti a questa stesura del turbamento e della sua crudele dissimulazione. La non omogeneità è il punto di forza di questa scrittura doppia, androgina e che rivela moltissimo del maschile di Elisabetta e del femminile di Rossano.
Così, partendo da ciò che i protagonisti di questa storia d’amore sono diventati durante l’attraversamento cieco della corruzione del tempo, la strana coppia Liguori-Astremo, racconta l’assurdità esistenziale - penosa, delirante - e l’unica solidarietà possibile: riconoscerci in quanto esseri umani, all’improvviso - tarda epifania del rovescio - in tutto ciò che uccidiamo.
“Ognuno uccide la cosa che ama” scrisse Wilde nel confino del carcere, dov’era finito con l’accusa di pederastia - l’amore per Bosie, Alfred Douglas, l’uomo che lo portò alla rovina - ovvero l’aver violato le regole della sua classe sociale. La dissertazione è d’obbligo se si pensa che la password di questo romanzo etico è tutta nella citazione dell’inizio, firmata Albert Camus, sfilata via, spina di pesce, da “Lo straniero“: “In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra“.
Il vero crimine, così come l’unico peccato possibile, è il difetto di sentimento.
Il backstage del romanzo è interessante almeno quanto il suo esito. E’ stato Astremo a proporre il soggetto a Liguori, da qui in poi il lavoro è sbocciato avvalendosi di un certo parallelismo condito da lunghe telefonate serali tra i due autori pugliesi che sono anche un frutto dell’utopia della scrittura ai tempi di Internet avendo dimostrato come dialogano, talvolta, le solitudini. Quelle degli scrittori specialmente. Torna il tema caro alla Liguori (che si è fatta amare con la maturità dei due romanzi “Il credito dell’imbianchino“, Argo, finalista al Carver 2005 e “Il correttore“, PeQuod), la violenza invisibile, che nuota nelle case, in quell’acquario chiamato famiglia, dove, come si legge a pagina 150: “La televisione riempie di sabbia le ore“. Oppure, ancora più forte, a pagina 138: “Tutto è acquatico, pure il rumore della tele sempre accesa nel languore domestico“. Viene in mente una versione terrestre, miserabile, di “Blade Runner“. Dopo “Corpo poetico irrisolto” (Besa) e “L’incanto delle macerie” (Icaro) Astremo, che macina da anni scrittura in rete e sui giornali, presta la sua poetica a un romanzo scritto per fotogrammi, per immagini, fratturando un po’ di generi e facendoci captare, di tanto in tanto, la musica che arriva dall’altra stanza.
Ciò che ne deriva non è solo un’analisi socio-psicologica precisa come un bisturi, netta. E’ letteratura di livello, entra negli spazi scomodi, vede quello che è complicato anche solo guardare. Questo libro riconcilia il talento con la militanza, è un sonar nel mare di carta dell’Italietta grafomane che piega l’ispirazione alle ricette del mercato editoriale. Liguori e Astremo dicono più di qualcosa, con la massima sincerità possibile, mettono il lettore in contatto con l’evidenza a tal punto ignorata da sembrare iperreale e surreale. E quella sincerità trasforma il lettore, lo scuote, lo mette in crisi. E’ molto, ed è ciò che si crede di meritare dopo l’acquisto di un libro. La ricerca dei protagonisti di questo romanzo, è nello sforzo immane di continuare a vivere nonostante “Tutto questo silenzio“, affidando quello che lo stesso Camus riteneva essere l’unico vero problema filosofico a un linguaggio credibile e sontuoso al contempo, pieno della forza comunicativa della più fragile adolescenza accanto all’autismo involontariamente lirico degli adulti.

Una famiglia apparentemente normale, di plastica (come annunciano i quattro pupazzi inquietanti della copertina) le due giovani figlie di una coppia che ha smesso di impegnarsi per far esistere il futuro. Il circuito minimo che ruota intorno a questo buco nero. E la violenza rapsodica che squarcia la routine cianotica dei Bordini, eroi del disgusto, anestetizzati da un dolore troppo grave che li vota al fallimento.
E qui, proprio nei destini dei perdenti, si tocca la mano solidale dei due scrittori che mettono la parola al servizio della vergogna della verità, consentendo il beneficio di una confessione a personaggi che altrimenti non riuscirebbero a trovare il canale di scolo della parola per essere ancora umani, continuerebbero a guardare da un’altra parte credendo di collezionare una pazienza che calcifica in chi si condanna a sopportarla. Perché non è vero che non è mai troppo tardi. Alcuni libri stanno alla letteratura come l’esclamazione disarmante del bambino di Andersen alla folla della fiaba danese che occultava l’ovvietà: “Il re è nudo!“.

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