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mercoledì 25 agosto 2010

Nacquero contadini, morirono briganti di Valentino Romano (Capone editore). Intervento di Paolo Zanetov


















La nuvola di polvere all’orizzonte che tra grida lontane annuncia l’approssimarsi della selvaggia cavalcata dei briganti, il fumo degli spari, lo schioccare delle pallottole e il balenio delle sciabole snudate della cavalleria – sequele classiche delle cronache brigantesche – riconducono il nostro immaginario agli scontri, agli agguati, alle scorrerie ed ai colpi di mano che abbiamo visto scorrere sul grande schermo nelle pellicole d’oltreoceano dedicate alla conquista del West, da Ombre Rosse al Piccolo grande uomo. Analogamente a quella degli indiani, la minacciosa presenza dei briganti aleggia e si percepisce senza mai entrare nello specifico di una umana concretezza, atta a rendere visibili sentimenti, emozioni e sofferte ragioni dei protagonisti di quelle drammatiche vicende. All’atto del loro sparire nella lontananza di un intravisto crinale o in impenetrabili selve ci si chiede ragione della voluta assenza dei loro profili, pronti a ricomparire tragicamente nelle foto dei loro corpi sconciati o, fittiziamente, in quelle d’abusato repertorio che li ritraggono in simulate pose guerresche o, pensosi e sviliti, in catene. A questa ideologica assenza rimedia finalmente il libro di Valentino Romano che, al contrario, ha volutamente deciso di indagare questa dispersa umanità nelle carte d’archivio. Le sofferenze, l’emotività e le miserie persino di queste vite traboccano fuori dalle pagine ingiallite di quei documenti, restituendoci – in un insolito e inaspettato candore – le certe figure di concretissime e a noi umanamente vicine esistenze.

Il volto del brigante, e con esso quelli di una dolente umanità comprimaria alle sue gesta, balzano vivissimi dalle pagine proponendoci un inedito ritratto della società contadina che li espresse. Bramosa di giustizia assoluta, vendicativa quanto misteriosa e antica nel suo modo di intendere relazioni e avvenimenti, la popolazione del Sud ci appare ansiosa di ripresentare consumate ragioni che, irrisolte, vengono da molto lontano. Una epopea minore quella qui raccontata che, con le speranze, gli odi e gli abbandoni che la animano, trova profonda ragion d’essere nel suo percepirsi perennemente offesa e dimenticata. Ad onta di ogni visione di parte nessuno dei suoi attori – sia detto per gli invasi e gli invasori, i vinti e i vincitori – esce da questa storia con la coscienza netta.

Non hanno il “senso della storia” i vinti, così come – a ben vedere – i vincitori, subito prigionieri di un ferreo meccanismo di potere ad essi antecedente che impedirà nel prosieguo dei fatti una sensata assimilazione del Regno appena conquistato nella, dai molti sognata, “ Nuova Italia”. Il brutale urto con la Storia segnerà per decenni l’inanità di questo scontro. Mutuando un acuto giudizio di Lamberti Sorrentino sull’humus della resistenza russa all’invasione tedesca nella seconda guerra mondiale – ben adattabile al consimile sentire dei “briganti”: “… Confuso, sinistro, cieco, inintelligente, il partigiano porta con se la realtà, e spera di poter divellere ostacoli, contrasti, barriere, limiti … Esemplari al di fuori delle razze, gente della specie nel senso dell’elementarità più assoluta. Spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati e convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo … Esistiamo, vogliamo esistere, esisteremo sempre, andatevene”. Nello svelare inediti retroscena (come nei casi di Ninco Nanco, dei Rago, dello stesso Crocco), così come nel tratteggiare semplici quadri di vita materiale, l’abilità dell’autore sottolinea un qual certo disincanto che anima tutte le storie, suggerendo la fatalità nell’accettazione del destino di un popolo “incappato – sono parole sue – suo malgrado, nel bel mezzo di uno scontro epocale tra vecchio e nuovo”; fatalità ben espressa – a nome di tutta la sua gente – dalla brigantessa Peppinella che, rispondendo a Michele Di Gè che la esortava a desistere dalla lotta (“meglio che ve ne andate, altrimenti la vostra vita è poco”), rifiutò, lasciandosi sfuggire uno sconfitto “dove corre corre la mia pianeta …”. (dalla prefazione al volume)

info: info@caponeditore.it

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