C’è un tempo per ogni cosa. E ogni cosa ha il suo tempo.
Queste poche parole compongono due piccole frasi che (per me) contengono un
concetto salvifico… E, percorrendo la mia strada, sono quasi diventate un
mantra da librare sottovoce quando il tempo sembra essere (o davvero è) in
dirittura d’arrivo, prossimo a tagliare il traguardo, col petto sul nastro, nel
mentre arranco, con l’affanno, le gambe acide e pesanti, la mente capace
soltanto di mandare nebbia sporca agli occhi, nella penultima curva. Quasi una
filosofia di vita. Che, soprattutto in quei momenti, mi ricorda quanto poco
valga il tempo senza il proprio Tempo. Soltanto la cura e l’attenzione del
proprio Tempo possono far stare davvero al passo col tempo. Pausa. Che questo
non sia l’incipit di un saggio l’avrete capito dalla “pausa”, ma casomai vi
fosse sfuggito ora lo sapete. Le pause sono necessarie. Sempre. Comunque.
Quella di cui sopra si è materializzata sul filo e potrei dire che aveva il
sapore del… cuscus. Da lì sono andato nel Maghreb: kuskusu; poi, ho ascoltato
la voce di un berbero: seksu; e, quindi, il mio volo è planato in Francia: couscous.
Di ritorno, riannodando quel che dicevo, aggiungo che –finalmente- ho letto un
libro che mi aspettava dal dicembre dell’anno passato: “La felicità del
testimone” (Manni Editore, Collana Punto G, pagine 271, € 17,00, 2011), di
Elisabetta Liguori. Un libro sorprendente. Liquido. Spiazzante. Non tanto per
la storia narrata, quanto per come è narrata. Non tanto perché non te l’aspetti
dall’Autrice, quanto per l’importanza della svolta. Non tanto per l’anomalia
del noir, quanto per la distanza (abissale) dai precedenti noir (“Il credito
dell’imbianchino” e “Il correttore”) di Elisabetta Liguori. S’è vero, come
credo, che il genere che chi scrive adotta per dire quel che gli sta dentro e/o
quel che lo tocca da fuori, ebbene penso che Elisabetta Liguori abbia concluso
la sua esperienza col noir proprio con questo libro, che compie una trilogia
(con i citati precedenti) che non lascia spazio a similari esperienze. Ché ne
“La felicità del testimone” tutto il meglio del repertorio espressivo di
Elisabetta Liguori è stato toccato. Beninteso, ci potranno essere altri noir,
l’Autrice ci regalerà altri romanzi (cimentandosi con altri generi letterari),
di sicuro la verve narrativa l’accompagnerà e ci farà compagnia finché respiro
avrà e voglia di leggerla avremo, ma non sarà più la stessa cosa. Ecco, dire
quel che ho notato (io che rifuggo le classificazioni…), m’è servito per
appuntare questo: “non sarà più la stessa cosa”. Voglio dire che dopo questa
altissima prova letteraria, niente (come si suol dire) sarà più come prima.
Elisabetta Liguori, col prossimo libro che sarà (…), supererà la scrittrice
nata che è, ma niente sarà più come prima. Ché “La felicità del testimone” è un
punto d’arrivo. Ma è anche un luogo, ché questo libro è anche un luogo –come di
pietra miliare-, dal quale si può e si deve iniziare un altro viaggio. Come
alla fine di ogni fine. Questo libro chiude un percorso più dei precedenti e
che coi precedenti era cominciato e s’era fatto strada. Questa è la mia
lettura. Senza presunzione critica e con tutti gli altri senza che volete.
Dovrei motivare quel che ho scritto. Credo di cavarmela se, evitando il già
detto e ogni ovvietà, aggiungo che questa storia –tra quelle scritte da
Eisabetta Liquori (da me lette)- contiene la meraviglia della perfetta unione,
dell’intimo connubio, dell’inseparabile contaminazione, richieste dal romanzo
quando la narrazione segue i tempi del realismo: la realtà e la fantasia stanno
così bene insieme, ci stanno da dio, si godono come pazze, che non distingui
(da lettore) l’una dall’altra. E, se si condivide quel che pensa Richard Millet
a proposito del romanzo, ossia che “il romanzo può ancora sfuggire a se stesso,
essendo in fin dei conti un’esperienza dell’inferno”, ebbene “La felicità del
testimone” (eliminate definizioni di genere e mie elucubrazioni mentali) è un
romanzo autentico che sbaraglia l’impostura di tanti scrittori odierni che si
fregiano di essere tali perché ben inseriti nella mistificazione della
scrittura siccome imposta e elargita da un sistema che della letteratura ha
fatto simulacro a uso e consumo di invertebrati lettori. Ché Elisabetta Liguori
ha qualcosa d’importante da trasmettere e lo fa con una lingua che arriva
dritta ai sensi e si fa senso e, parola dopo parola, similitudine dopo
similitudine, aforisma dopo aforisma, abisso dopo abisso, riemerge piena di
levità: ch’è quella leggerezza che ogni uomo vorrebbe provare dopo averla detta
per intero. In questo libro, Elisabetta Liguori l’ha detta tutta. Per intero.
E, si sa, il vuoto è una brutta bestia. Ma fare il vuoto è felicità. Già, la
felicità! Se va bene puoi toccarla e esserne toccato, attraversarla e farti
attraversare, provarla e nutrirla. Ma poi? Si sa, anche questo si sa, è uno
stato temporaneo. Ma è davvero uno stato temporaneo? La risposta, la mia, non
so se possa interessare a qualcuno. Elisabetta Liguori ce l’ha indicata. È
nelle pagine di questo libro. Oltre il fatto di cronaca da cui muove la
narrazione e che diventa narrazione. Oltre i personaggi -che, se esistesse la
perfezione, non esiterei a dire- perfettamente delineati caratterialmente.
Oltre ogni realtà descritta. Oltre la fiction. Mirabilmente amalgamate (l’ho
già scritto). E, dunque, oltre tutto, questo è un libro sulla ricerca della
felicità. Non credo esista una ricetta universale per trovarla. Credo di sapere
cos’è. È lunghi capelli sciolti, tesa sulle punte dei piedi, braccia larghe
verso l’orizzonte ch’è una vallata spersa nel blu, naso sù. È una striscia di
fumetto e nuvolette senza parole. È quattro gambe a pelo d’acqua e il resto
(che non si vede) su un pontile di legno a dondolare un ritmo solo. È un campo
giallo dove tutti gli altri colori fanno a gara con le nuvole di sopra sapendo
di perdere. È mani nelle mani dopo che mano ha stretto mano. È linguaccia a
fragola di una bimba che sgrana occhi birichini tra le dita. È una coccinella
su un girasole ma potrebbe essere su qualsiasi altro fiore. È un film in
B&N dove cappelli si guardano e non importa altro. È sguardo di occhi
aperti su occhi chiusi intanto che il cielo scorre. È il sonno di un bambino
che vederlo è sogno. È una sigaretta dopo un bacio per mischiare sapori. È un
aquilone senza filo che sospeso comunque sta. È una canzone qualunque tranne
quella. È “Ciccio” pancia all’aria e “Nino” che porge la zampa. È il vento nei
capelli, tra i capelli, nelle radici dei capelli, e oltre quelli. È quella
detta e mai provata e quella provata ma indicibile. È quella che tutti cercano:
lunga come un arcobaleno e corta come un accento. È quella che le parole stanno
prima e dopo ma la narrazione non finirà mai. E ancora… Epicuro e molti altri
hanno segnato strade, ma nessuna via che porta diritta verso la felicità.
Ognuno può inventarsi la propria. Elisabetta Liguori ci dice che esiste la
felicità e che ci vuole “un gran coraggio per continuare a essere felice”. Ah,
dimenticavo: c’è un’intera pagina del libro che da pura poesia è diventata
prosa. Ma la sua origine non può essere nascosta. Rimane poesia. Che il
cambiamento stia in una diversa frequentazione della poesia?
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