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mercoledì 25 luglio 2012

La felicità del testimone di Elisabetta Liguori (Manni). Intervento di Vito Antonio Conte


C’è un tempo per ogni cosa. E ogni cosa ha il suo tempo. Queste poche parole compongono due piccole frasi che (per me) contengono un concetto salvifico… E, percorrendo la mia strada, sono quasi diventate un mantra da librare sottovoce quando il tempo sembra essere (o davvero è) in dirittura d’arrivo, prossimo a tagliare il traguardo, col petto sul nastro, nel mentre arranco, con l’affanno, le gambe acide e pesanti, la mente capace soltanto di mandare nebbia sporca agli occhi, nella penultima curva. Quasi una filosofia di vita. Che, soprattutto in quei momenti, mi ricorda quanto poco valga il tempo senza il proprio Tempo. Soltanto la cura e l’attenzione del proprio Tempo possono far stare davvero al passo col tempo. Pausa. Che questo non sia l’incipit di un saggio l’avrete capito dalla “pausa”, ma casomai vi fosse sfuggito ora lo sapete. Le pause sono necessarie. Sempre. Comunque. Quella di cui sopra si è materializzata sul filo e potrei dire che aveva il sapore del… cuscus. Da lì sono andato nel Maghreb: kuskusu; poi, ho ascoltato la voce di un berbero: seksu; e, quindi, il mio volo è planato in Francia: couscous. Di ritorno, riannodando quel che dicevo, aggiungo che –finalmente- ho letto un libro che mi aspettava dal dicembre dell’anno passato: “La felicità del testimone” (Manni Editore, Collana Punto G, pagine 271, € 17,00, 2011), di Elisabetta Liguori. Un libro sorprendente. Liquido. Spiazzante. Non tanto per la storia narrata, quanto per come è narrata. Non tanto perché non te l’aspetti dall’Autrice, quanto per l’importanza della svolta. Non tanto per l’anomalia del noir, quanto per la distanza (abissale) dai precedenti noir (“Il credito dell’imbianchino” e “Il correttore”) di Elisabetta Liguori. S’è vero, come credo, che il genere che chi scrive adotta per dire quel che gli sta dentro e/o quel che lo tocca da fuori, ebbene penso che Elisabetta Liguori abbia concluso la sua esperienza col noir proprio con questo libro, che compie una trilogia (con i citati precedenti) che non lascia spazio a similari esperienze. Ché ne “La felicità del testimone” tutto il meglio del repertorio espressivo di Elisabetta Liguori è stato toccato. Beninteso, ci potranno essere altri noir, l’Autrice ci regalerà altri romanzi (cimentandosi con altri generi letterari), di sicuro la verve narrativa l’accompagnerà e ci farà compagnia finché respiro avrà e voglia di leggerla avremo, ma non sarà più la stessa cosa. Ecco, dire quel che ho notato (io che rifuggo le classificazioni…), m’è servito per appuntare questo: “non sarà più la stessa cosa”. Voglio dire che dopo questa altissima prova letteraria, niente (come si suol dire) sarà più come prima. Elisabetta Liguori, col prossimo libro che sarà (…), supererà la scrittrice nata che è, ma niente sarà più come prima. Ché “La felicità del testimone” è un punto d’arrivo. Ma è anche un luogo, ché questo libro è anche un luogo –come di pietra miliare-, dal quale si può e si deve iniziare un altro viaggio. Come alla fine di ogni fine. Questo libro chiude un percorso più dei precedenti e che coi precedenti era cominciato e s’era fatto strada. Questa è la mia lettura. Senza presunzione critica e con tutti gli altri senza che volete. Dovrei motivare quel che ho scritto. Credo di cavarmela se, evitando il già detto e ogni ovvietà, aggiungo che questa storia –tra quelle scritte da Eisabetta Liquori (da me lette)- contiene la meraviglia della perfetta unione, dell’intimo connubio, dell’inseparabile contaminazione, richieste dal romanzo quando la narrazione segue i tempi del realismo: la realtà e la fantasia stanno così bene insieme, ci stanno da dio, si godono come pazze, che non distingui (da lettore) l’una dall’altra. E, se si condivide quel che pensa Richard Millet a proposito del romanzo, ossia che “il romanzo può ancora sfuggire a se stesso, essendo in fin dei conti un’esperienza dell’inferno”, ebbene “La felicità del testimone” (eliminate definizioni di genere e mie elucubrazioni mentali) è un romanzo autentico che sbaraglia l’impostura di tanti scrittori odierni che si fregiano di essere tali perché ben inseriti nella mistificazione della scrittura siccome imposta e elargita da un sistema che della letteratura ha fatto simulacro a uso e consumo di invertebrati lettori. Ché Elisabetta Liguori ha qualcosa d’importante da trasmettere e lo fa con una lingua che arriva dritta ai sensi e si fa senso e, parola dopo parola, similitudine dopo similitudine, aforisma dopo aforisma, abisso dopo abisso, riemerge piena di levità: ch’è quella leggerezza che ogni uomo vorrebbe provare dopo averla detta per intero. In questo libro, Elisabetta Liguori l’ha detta tutta. Per intero. E, si sa, il vuoto è una brutta bestia. Ma fare il vuoto è felicità. Già, la felicità! Se va bene puoi toccarla e esserne toccato, attraversarla e farti attraversare, provarla e nutrirla. Ma poi? Si sa, anche questo si sa, è uno stato temporaneo. Ma è davvero uno stato temporaneo? La risposta, la mia, non so se possa interessare a qualcuno. Elisabetta Liguori ce l’ha indicata. È nelle pagine di questo libro. Oltre il fatto di cronaca da cui muove la narrazione e che diventa narrazione. Oltre i personaggi -che, se esistesse la perfezione, non esiterei a dire- perfettamente delineati caratterialmente. Oltre ogni realtà descritta. Oltre la fiction. Mirabilmente amalgamate (l’ho già scritto). E, dunque, oltre tutto, questo è un libro sulla ricerca della felicità. Non credo esista una ricetta universale per trovarla. Credo di sapere cos’è. È lunghi capelli sciolti, tesa sulle punte dei piedi, braccia larghe verso l’orizzonte ch’è una vallata spersa nel blu, naso sù. È una striscia di fumetto e nuvolette senza parole. È quattro gambe a pelo d’acqua e il resto (che non si vede) su un pontile di legno a dondolare un ritmo solo. È un campo giallo dove tutti gli altri colori fanno a gara con le nuvole di sopra sapendo di perdere. È mani nelle mani dopo che mano ha stretto mano. È linguaccia a fragola di una bimba che sgrana occhi birichini tra le dita. È una coccinella su un girasole ma potrebbe essere su qualsiasi altro fiore. È un film in B&N dove cappelli si guardano e non importa altro. È sguardo di occhi aperti su occhi chiusi intanto che il cielo scorre. È il sonno di un bambino che vederlo è sogno. È una sigaretta dopo un bacio per mischiare sapori. È un aquilone senza filo che sospeso comunque sta. È una canzone qualunque tranne quella. È “Ciccio” pancia all’aria e “Nino” che porge la zampa. È il vento nei capelli, tra i capelli, nelle radici dei capelli, e oltre quelli. È quella detta e mai provata e quella provata ma indicibile. È quella che tutti cercano: lunga come un arcobaleno e corta come un accento. È quella che le parole stanno prima e dopo ma la narrazione non finirà mai. E ancora… Epicuro e molti altri hanno segnato strade, ma nessuna via che porta diritta verso la felicità. Ognuno può inventarsi la propria. Elisabetta Liguori ci dice che esiste la felicità e che ci vuole “un gran coraggio per continuare a essere felice”. Ah, dimenticavo: c’è un’intera pagina del libro che da pura poesia è diventata prosa. Ma la sua origine non può essere nascosta. Rimane poesia. Che il cambiamento stia in una diversa frequentazione della poesia?


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