Lo sgurz è qualcosa di
indefinibile che talora appare negli eventi e nelle persone. Cercavamo di
inseguirlo e di definirlo in uno spettacolo a metà anni ottanta dal titolo
"Chiamatemi Kowalsky", in cui Paolo Rossi e io, si presumeva che
questo tal Kowalsky, di cui raccontavamo le gesta, avesse lo sgurz. Quando gli
prendeva un colpo di sgurz faceva cose apparentemente poco logiche e coerenti,
entrava in un'altra dimensione. Il termine poi precipitò in un film di
Salvatores, "Kamikazen - ultima notte a Milano", che aveva nella
locandina la dicitura "il primo film con lo sgurz", nientemeno. Sgurz
mi ricorda una Milano viva, sentimentale, intelligente, in anni nei quali si
contrapponeva alla Milano da bere un vitalismo malinconico e sensuale, sempre sorretto
da una forte vocazione alla gioia, che circolava tra le canzoni di Jannacci e
di Gaber, nei poemi di De André e Guccini, nei romanzi di Benni, e, in giro per
l'Italia, nei disegni di Pazienza e nelle azioni del manipolo di Tango (Staino,
Hendel, Pietrangeli).
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