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lunedì 20 ottobre 2008

Immaginaria 08

















La fabbrica dei gesti
riparte con
"IMMAGInARIA"
Laboratorio Coreografico/Teatrale
condotto da

Silvia Lodi e Stefania Mariano

Lezione Prova
Venerdì 31 ottobre 2008


Formazione e ricerca dove scoprire, apprendere, creare, lavorare sulla danza ed il teatro attraverso il training fisico e gli elementi fondamentali della dinamica, peso e respirazione. E ancora: l'improvvisazione personale e di gruppo, la composizione, il lavoro con il testo, gli elementi di base della danza contemporanea e l'uso della voce.

Il laboratorio è rivolto a danzatori, attori e musicisti provvisti di esperienza, e a chiunque abbia la curiosità e l'interesse a scoprire e risvegliare le proprie capacità sensoriali, espressive e creative. L'obiettivo del lavoro è espandere e coltivare la propria capacità di comunicazione con gli altri e con lo spazio. Il laboratorio intende, attraverso gli strumenti pratici e teorici, sviluppare una coscienza corporea con l'intento di far dialogare i due linguaggi: teatro e danza. Inoltre, si vuole approfondire il piacere della ricerca, concedendosi il giusto tempo per analizzare e scavare, svelando un percorso che va sempre più in profondità.

Sono previsti percorsi di studio per due livelli: principianti - avanzati. Il laboratorio si concluderà a giugno 2009, presentando al pubblico un primo studio sul lavoro svolto.

La lezione PROVA è fissata per venerdì 31 ottobre 2008, dalle 18.00 alle 20.00, con l'obbligo di prenotazione.

Max 12 partecipanti.
Non si può effettuare più di una lezione prova gratuita.
La frequenza è bisettimanale.

Per prenotarsi: chiamare il n. 347.5424126
fabbricadeigesti@gmail.com

giovedì 16 ottobre 2008

La città perfetta, di Angelo Petrella, Garzanti (Milano, 2008) di Nunzio Festa

La Napoli di Petrella va oltre Rea e La Capria. Con questo romanzo, oggi chiaramente, possiamo decisamente dire – e con tutto il rispetto che arriva da modestie antiche e giovani – che Angelo Petrella è uno degli scrittori al momento più importanti da leggere e ricordare; che Petrella – oggigiorno è salito più in alto di un Ermanno Rea della Dismissione come di tanti La Capria ugualmente significativi. E questo giusto per pensare a due compaesani, diciamo. Ma questo solamente per esempio (appunto…). I centri operativi mobili e immobili del narratore napoletano, quelli che sanno di divise a dir poco sporchissime e allo stesso tempo di anni stati di Pantera e occupazioni, sono bagnati nella Napoli che è mondo intero, immenso, per certi versi spropositato. Nella lettura più attenta, occorre ammettere subito, ci aiuterà un bravo Fattori e il super attento F. Forlani. Dal Napoli, ancora, allo stadio alla lotta armata. I protagonisti del romanzo sono creati per testimoniare con dettagli speciali una storia presente nutrita di qualche anno fa e della possibilità che molte cose descritte possano ripetersi o farsi. Sanguetta è un adolescente dei Quartieri Spagnoli e ha in carcere la grande scelta di diventare informatore dei servizi segreti. Chimicone è uno studente di liceo che farà la Barricata Silenziosa per azionare la lotta armata dopo la fine delle occupazioni studentesche ed è follemente innamorato di Betta. L’Americano è un cocainomane digossino in cerca d’una vendetta. Intanto la bella Napoli è di proprietà del camorrista Sarracino. Siamo, occorre preannunciare, in un periodo che inizia dal 1988 e termina nel 2003. L’autore è nato nel ’78 e con cura vuole occuparsi di un paio di decenni più avanti, di anni che saranno pure quasi completamente suoi. Con la Città perfetta Petrella, dopo i bellissimi noir creati con Meridiano zero, mette insieme un mare di documentazione e una fiction che ricorda il cinema, ma specialmente è capace di mescolare un linguaggio corposo e tagliente quanto denso di tante particolarità altre e uniche al magma che sono i cuori umani. Si corre il rischio, è anche vero, di farsi corteggiare da soldi e sangue, da vicende malavitose e scelte politiche le più varie. Dalle grandi svolte, come un pizzico di PCI e alcuni grammi di calcio maradonesco, alle certezze più crude. Una su tutte la fluida gestione delle questioni che alla medesima maniera Stato e camorra tante volte somministrano alle persone ignare. Con questo superbo libro molto si riesce a vivere. Le dinamiche che vengono fuori con suono delle bombe e gli altri colpi sparati sono le relazioni e le macchinazioni celebrali che stanno intorno e dentro a tanti corpi disegnati e persino facilmente da parallelo con la realtà. Però non basta. Infatti il libro ha la lingua scelta perché addirittura a pezzi inventata e il linguaggio originale di Angelo Petrella messa insieme ai ritmi voluti e assegnati dallo scrittore. La critica e il pubblico dovrebbero applaudire all’eccellente penna.

martedì 14 ottobre 2008

La poesia ... a distanza




















In fondo, siamo un paese di santi, poeti e parlatori. Per questo e per tutti, la
rivista letteraria internazionale Storie e la casa editrice Leconte
presentano il primo

CORSO di POESIA a distanza

I metodi e lo stile dei grandi poeti contemporanei per scrivere e migliorare
le proprie poesie.

Lezioni, Interventi, interviste didattiche, poesie inedite di:
Raymond Carver, Tess Gallagher, Ariel Dorfman, Gerald Malanga,
Molly Peacock, James Ragan, Michael Hogan, Dario Bellezza,
Anne Winters, Ayse Lahur Kirtunc, Ira Cohen e Liliana Ursu, fra gli altri.
Dal verso libero alla poesia in prosa, fino all’haiku e alla poesia Slam.

30 lezioni a tema, 2 dispense didattiche, 2 libri-saggio di Gregory Corso e su
Charles Bukowski, 8 tutor a disposizione, 12 esercizi e 6 esercitazioni,
un Forum dedicato agli allievi e in più un Concorso a Premi (Premio Fatti Poetici
2009) riservato agli iscritti.

Diploma in 6 mesi con valore di credito formativo.

Scopo del Corso è quello di stimolare ogni iscritto a scoprire, esercitare
o perfezionare la propria attitudine alla scrittura in versi. Un esauriente compendio
della produzione poetica contemporanea italiana e internazionale che si avvale
di una quantità di nozioni, consigli, esempi, esercizi ed esercitazioni progettate
per incoraggiare la necessità quasi terapeutica di leggere e scrivere poesia.
Un programma studiato per illustrare gli aspetti fondamentali della materia
e che, al tempo stesso, si pone come punto di partenza per l'elaborazione di
uno stile poetico personale.

Le migliori poesie dei corsisti saranno pubblicate su Storie e su due antologie
a tema allegate alla stessa rivista.

Per saperne di più, questo il promo del Corso:
http://www.storie.it/promocorsodipoesia.htm

Per ulteriori informazioni: www.storie.it - 06.6148777

E che la poesia sia con voi.

in foto il poeta Gregory Corso

domenica 12 ottobre 2008

Estratto da Il paese delle spose infelici di Mario Desiati (Mondadori 2008)

Ho avuto parte della mia infanzia e adolescenza sterminata dal disagio, uncini metallici che hanno forato l’anima delle sue espressioni più vive. L’eroina aveva sterminato i nostri fratelli maggiori. I residui di quella generazione giravano abbruttiti tra un centro polivalente e l’altro. Avevano il cervello bruciato, le facce erano scavate con i tratti smussati dalla tossicodipendenza. Venivano chiamati metallari perché come i componenti di quei gruppi hard andavano vestiti di scuro e portavano in faccia un colore esangue (ma non era cipria, era il vuoto dei loro globuli rossi). Tuttavia gli sbagli di quei fratelli maggiori non erano esemplari. Della mia adolescenza ricordo questa costellazione di amicizie, problematiche, tremende, autodistruttive. La mia famiglia bella e perbene non capiva le ragioni per cui annegassi in quei gruppi disadattati. Non capiva perché rifiutavo le piscine, i corsi di inglese in America o in Inghilterra, le scuole salesiane, i miei coetanei di bella famiglia, i pomeriggi con i rotariani e i lions. Non capivano perché ero sempre sulla strada o a Pezza Mammarella a farmi insultare e malmenare da un pallone sbucciato. Non capivano che per me l’Esperia e le sue decine di storie intrecciate erano la mia vita, sin dal primo momento in cui avevo iniziato a viverle.Non capivano perché Daniele, il figlio del grande avvocato che stava percorrendo la strada paterna, fosse per me un nemico mortale e non un luminoso esempio o più semplicemente un amico.

fonte www.vertigine.wordpress.com
diretta da Rossano Astremo

mercoledì 8 ottobre 2008

Scripta

















"Scripta" dei modi dello scrivere e del dire poesia


Rassegna breve di scritture, voci, espressioni che dal 15 ottobre 2008, al 14 gennaio 2009 sarà ospitata dalla Biblioteca Provinciale "N. BERNARDINI" di Lecce





Con: Margherita Macrì, Biagio Lieti, Antonio Natile, Irene Leo, Massimiliano Manieri, Nicola Verderame, Gianni Minerva, Marthia Carrozzo




SCRIPTA è ciò che è scritto, o che, chissà, come dimostreremo, può rendersi tangibile anche nella voce, aprendo a nuove possibilità del dire poesia, non più relegato tra le pagine rilegate, non più costretta in caratteri tipografici, ma libera di svincolarsi per essere nell'inconsistenza dell'ascolto che la riceve.
Nostro filo di raccordo sarà poi, per questa prima edizione, il Corpo:
corpo dello scrivere e del dire, corpo che fa scrivere; attraverso cui veicolare voci, espressioni; corpo con cui afferrare e fermare allora nei versi il sentire di ciascuno. Scritti sul corpo, o per il corpo, versi dei poeti qui proposti, proveranno ad intessere un dialogo forte e attento con l'ascolto, andando a rivitalizzare il vecchio corpo polveroso di questo luogo, il corpo storico che ci accoglierà negli interstizi sottili delle sue memorie, facendolo poi riverberare e pulsare attraverso ciò che parte dalla pagina e dalla pagina si diparte, chiaro input ad una nuova coscienza del dire poetico dei nostri giorni.

Direzione artistica di Marthia Carrozzo

lunedì 29 settembre 2008

Luigi Neglia e Miss Digital World




Quando ero un po’ più giovane, e avevo un futuro da coltivare pensavo a cosa avrei fatto da grande, e questo pensiero generava scenari fantastici. Neil Armstrong aveva da poco messo il piede su un altro pianeta e il futuro letto in centinaia di romanzi di fantascienza prendeva consistenza e si trasformava in realtà. Quel futuro fatto di città tecnologicamente evolute, case avveneristiche, marciapiedi mobili, ed auto volanti, sarebbe stato il mio presente, ed io ne sarei stato uno degli artefici. Il tempo è trascorso e adesso che ho un passato da tramandare, mi guardo attorno ,
e vedo che poco o nulla è cambiato da allora , ci sono ancora le baraccopoli, macchine volanti non se ne vedono, nè i marciapiedi mobili sono mai stati costruiti (che a dire il vero già allora mi sembravano una cazzata!) ed io nel frattempo cosa sono diventato? Un coraggioso astronauta?
Un grande scienziato? Un salvatore dell’umanità?...No…Io alla fine sono diventato un…..
Oste! Non rimpiango di non essere diventato quello che avrei voluto essere perché alla fine ho avuto di più: sono in mezzo ai giovani, insieme a gente felice, allegra, a volte un po’ su di giri, vivo di riflesso le loro vite, le loro aspirazioni, i loro problemi, i loro progetti, e il futuro che si stanno anche loro costruendo giorno per giorno.


La mia vita

Da bambino ero un appassionato di chimica e di letture di fantascienza (anni sessanta). A quattordici anni comprai la mia prima rivista di elettronica e da allora la mia vita è cambiata. Qualche anno dopo (anni settanta) avevo il mio primo computer! Lo avevo assemblato io e utilizzava un processore Z80, aveva un display alfanumerico e una manciata di bit di memoria.
A venti anni mi sono appassionato di fotografia e da quel momento la tecnica si è unita all’arte: quelle erano le basi della computer grafica. Se mi chiedete cosa ho fatto in tutti questi anni (mezzo secolo) la mia risposta è: niente di concreto! Solo test, prove incompiute oppure pile di quadernoni con progetti mai completati, ma tutti iniziati e portati avanti fino al limite delle mie capacità o delle mie finanze e tutto questo non è stato negativo, perché anche se in realtà non sono esperto in alcunché, ho quella conoscenza generale che mi permette di aver comunque una visione completa di ogni cosa. Però ora che ci penso una cosa l’ho fatta:

Banshee

Banshee è una donna virtuale, generata al computer tramite alcuni programmi (modellazione poligonale, animazione, sincronismo labiale ecc.) e con mia grande sorpresa è arrivata alla finalissima di Miss Digital World, (la versione digitale di Miss Mondo). Finalissima composta da 14 modelle selezionate tra tutte le partecipanti provenienti da ogni parte del mondo). Beh! Devo dire alla fine che è un bel risultato per uno che fa l’oste di professione! Questa che segue è una delle tante interviste rilasciate su internet dopo la qualificazione alle finali del concorso:

Cuoco di professione e gestore di uno dei pub più antichi del Salento, Luigi Neglia, è un giovane leccese appassionato di computer grafica. Un’ ottima conoscenza dell’uso dei più svariati programmi di computer grafica. Una conoscenza data tutta dalla passione, che talvolta è il propulsore principale per l’apprendimento, passione che gli ha permesso di creare Banshee, una delle 14 donne virtuali più belle del mondo secondo la giuria del concorso di Miss Digital Word.


Come nasce Banshee?

Banshee l’ho modellata prendendo spunto da alcune foto di mia moglie da giovane, mentre ho voluto darle il carattere di una ragazza dei giorni nostri. Banshee cammina, si muove, parla… La voce di Banshee è quella di mia figlia,17 anni. Volevo in qualche modo realizzare e porre le basi del suo sogno: fare la doppiatrice. Banshee è l'unica tra le partecipanti al concorso ad avere una voce ed un carattere ben preciso.

Parlaci del concorso!

Banshee piacque tanto agli organizzatori che decisero di ammettere l'intero video, anche se era lungo il doppio del limite massimo consentito. Il concorso era strutturato in una prima accettazione e poi in due semifinali ed una finale. Banshee è arrivata in finale ossia tra le quattordici ragazze più
belle del 2006-2007 e questo è quello che conta perché per arrivare in finale doveva essere un buon lavoro: c'erano partecipanti da ogni parte del mondo. Orgoglioso del risultato ma consapevole di non poter sperare che questa passione potesse divenire un lavoro…

Luigi precisa:

Preferisco che la computer grafica rimanga una passione, e quello del cuoco rimanga il mio lavoro.

Lavorare per le grandi case :

La Pixar di Steve jobs, la Walt Disney Pictures di Michael Eisner o la Dreamworks di Spielberg,
è la massima aspirazione di tutti quelli che amano fare computer grafica.
Conosco persone che venderebbero la loro madre pur di vedere apparire il proprio nome nei titoli di coda di film d’animazione come :

Shrek (Dreamworks),

Madagascar (Dreamworks),

Toy story (Pixar)

Alla ricerca di Nemo (Pixar),

ecc. ecc.

e conosco persone che lavorano per queste grandi case, i cui nomi appaiono nei titoli di coda dei più grandi films di animazione dei nostri tempi, che sognano di scappare via.
Quando qualcuno, dopo una vita di sacrifici, arriva a varcare il portone d’ingresso di questi “luoghi sacri, dell’animazione, con un contratto di lavoro nella mano destra, e una valigia piena di sogni nella mano sinistra, è convinto che ha finalmente raggiunto lo scopo della sua vita: lavorerà al fianco di gente come spielberg, e relizzerà films al pari di jurassik park, o Kung Fu Panda porteranno anche la sua firma, magari un po’ più sotto di quella di Spielberg, metterà la sua fantasia e la sua arte al servizio del grande maestro, e magari nel suo più profondo sogno spererà di essere notato e apprezzato dalle persone che contano. Ben presto però capirà che la realtà è molto diversa:

regola n°1

la tua arte e la tua fantasia non interessano a nessuno ,
anzi sono severamente vietate in quanto intralcerebbe il progetto generale ,



regola n°2

eseguire il lavoro che ti è stato assegnato senza fare domande (rallenterebbero i tempi di produzione) nel tempo che ti è stato concesso (pochissimo) e senza conoscere il progetto generale (tanto quello che devi fare e tutto scritto nel tuo foglio di lavoro)



regola n° 3

se vuoi continuare a lavorare per loro, non contestare mai il lavoro che ti è stato assegnato, tu non sei nessuno, e i tuoi superiori sono tali perché superiori a te. Presto ti renderai conto che questi posti sono solo enormi macchine per fare soldi, e ti usano solo perché sai usare alla perfezione quel determinato programma, lo stesso programma che tu usavi quando davi forma alle tue idee, quando passavi intere nottate tentando di riprodurre quel sorriso che ti aveva tanto colpito, o quando vedevi al rallentatore per la duecentesima volta quella espressione di naomi watts che ti aveva letteralmente stregato, e tentavi di riprodurla sulla tua modella digitale per dargli lo stesso patos.
Lì negli “studios” invece il tuo compito si ridurrà probabilmente a creare la testa di un coniglio, uguale al disegno (fatto da qualcun’altro) che ti è stato consegnato, con l’imposizione di riprodurlo nel modo più esatto possibile, poi qualcuno’altro creerà il corpo, qualcun’altro lo ricoprirà di pelo, qualcun altro lo animerà, qualcun’altro creerà l’espressione, qualcun’altro lo illuminerà qualcun’altro gestirà il corpo con l’ambiente, qualcun’altro gestirà gli FX (effetti speciali) qualcun’altro calcolerà la maschera delle trasparenze ecc. ecc. e alla fine quel coniglio si vedrà in lontananza per una frazione di secondo in mezzo alla boscaglia , ma probabilmente nessuno degli spettatori lo noterà . L’arte che si vede in queste grandi produzioni (quando c’è) è lontana dalla tua postazione … tu stai lontano dalla luce, sei nella sala macchine a spalar carbone, mentre in alto molto più in alto, brillano le “mille luci di hollywood”. La mia Banshee che ormai è già vecchiotta (è stata creata quasi due anni fa).

Alcune foto qui : http://www.poseration.org/gallery/browseimages.php?c=38&userid=

In realtà l’animazione è piena di errori grossolani , in quanto il lavoro è stato redatto in fretta e furia, qualche giorno prima della consegna, in quanto ho cambiato tre volte progetto: il primo progetto (molto ambizioso) voleva essere il trailer di un ipotetico film in cui Banshee, nata nei vicoli della città vecchia, era depositaria di un potere tremendo, vedeva quando e come le persone morivano, da qui il nome di Banshee (la fata dei morti). Ma dopo un mese di lavoro ero riuscito solo a creare una delle 4 ambientazioni previste, quindi decisi di dirottare verso una animazione più semplificata e con ambiente unico: ossia la pubblicità di un prodotto per neonati in cui Banshee ne combinava di tutti i colori con una sequenza di disastri a catena (sul genere di Anna Never in Dylan Dog) che culminano con il crollo dell’intero set di ripresa: ma anche qui dopo aver creato il carattere del neonato, con le sue espressioni, la sua personalità i suoi tic ecc. Mi rendo conto che mancava solo una settimana alla consegna, e non c’è l’avrei mai fatta a finire, quindi stop anche qui, e in fretta e furia imbastisco una semplice intervista sul modello della pubblicità del Bacardi Breezer che andava in onda qualche anno fa. Mi rendo conto che l’animazione avrebbe avuto bisogno di almeno altre due settimane per correggere gli evidenti difetti (tremolii, applicazione della fisica nel ballo e nei movimenti del cavallo, espressività illuminazione ecc, ecc, e ancora ecc.) ma il tempo era terminato, avevo a disposizione solo 24 ore di cui venti utilizzate per rendere il finale e quattro per montaggio, creazione di una copia in bassa risoluzione per il web e confezionamento finale. E con mia grande sorpresa ho superato tutte le fasi fino ad arrivare in finale Adesso a distanza di quasi due anni da banche ho diversi progetti che porto avanti. Alcuni di questi sono già pronti per essere iniziati:

Il primo

Titolo provvisorio “Dolly fatta” riguarda una pecora che odia stare nel branco, ed è in continuo conflitto col cane pastore, in una delle sue continue scappatelle finisce in un campo sconosciuto e comincia a brucare la strana “erba “che vi cresce, l’erba in questione è naturalmente marjuana, e da qui comincia la storia con una serie di “gag” da fare invidia ai più blasonati cartoni, il cortometraggio animato, naturalmente è esilarante, passando però attraverso momenti altamente drammatici, come quando viene catturata dai propietari del campo e viene messa in una gabbia per essere macellata, e a momenti di grande altruismo, come quando scappa dal macello mettendo in salvo gli agnellini anche essi imprigionati per essere sgozzati. Naturalmente come ci si aspetta in questi casi, il finale è a sorpresa.


Un’altra storia che è quasi pronta per essere animata riguarda una storia realmente accaduta



L'isoletta della fanciulla è uno scoglio isolato che è situato ad ovest della Torre dei Pali, a circa cento metri dalla spiaggia. La leggenda narra che, durante una delle sue incursioni lungo le coste del Salento, il Corsaro Dragut inviò i suoi uomini a depredare alcune delle masserie ubicate nelle campagne del territorio di Salve. Dopo aver saccheggiato e distrutto tutto ciò che incontravano, i saraceni catturarono anche la figlia di un colono di una masseria con l'intento di portarla in Africa e rivenderla come schiava. Ma la giovane si oppose con ogni mezzo ai corsari, tentando più volte la fuga. La fanciulla venne spietatamente uccisa e gettata in mare dallo stesso Dragut. Qualche giorno più tardi, il corpo della fanciulla fu ritrovato da alcuni pescatori sull'isoletta, ricoperto da un velo di sabbia. Da quel momento lo scoglio venne chiamato l'Isola della Fanciulla. Questa animazione vorrei ricrearla utilizzando una difficile tecnica che mischia riprese fatte con la telecamera (tutto il paesaggio sarà reale) con i personaggi generati al computer e integrati all’interno della ripresa. La storia altamente drammatica (e purtroppo reale) ho immaginato che sia avvenuta nel momento più dolce della vita di una persona ossia il primo innamoramento, in questo momento magico dove tutto sembra bellissimo è il futuro diventa radioso e dolcissimo arriva la morte nel modo più violento e odioso, naturalmente non mancano altre storie in fase di allestimento come anna e maria una storia d ‘amore tra due ragazze ambientata nel profondo sud e ormony una semplice animazione nata da un fatterello che parla di un vecchietto che sbava dietro ad una superfiga…

sabato 27 settembre 2008

Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere d’astuzia e di birra (Fidenza, 2008) di Nunzio Festa

Quella che si direbbe una monumentale biografia. Ma che invece d’istallare un monumento ci restituisce la vita d’un grande poeta. Il gallese Dylan Thomas – quello che si scoprirà persino col nome che omaggia il mare - , quel poeta di grazia e disgrazia, di follia (irriverenza, soprattutto) e qualche piccola potente solitudine, è raccontato dal giornalista e romanziere Ferris. L’opera importantissima, appunto, è frutto del lavoro d’un Paul Ferris anch’egli nato a Swansea, città che vide nascere pure il fosforescente astro D. Thomas. La sconvolgente vita di Thomas, che campò sino alla semplice età di 39 anni, è imbottita d’alcol e debiti. Costituita da arte e fama. Contornata di tormenti, e afflizioni. Eppure sempre scandita dal cammino dei versi. La prova che il poeta era in vita, addirittura, era fatta proprio dallo scoppio dei versi. Ferris apre pagine di vita e conduce nelle tante relazioni del poeta. Grazie alla scorrevolezza della biografia, ovviamente, si riesce ad arrivare meglio nel fiato umano. Si sente un lamento. E si vedono le avventure quotidiane d’un uomo bravo e cattivo a giocare con la birra e il denaro. Anche spiacendosene, a volte. Che il poeta vuole la natura e sente la natura, ma si trova perfettamente a suo agio nei salotti accoglienti del lusso. “Nel pieno di una reading – scrive tra le altre cose Serino, in sede di passo introduttivo - davanti ad una platea universitaria, era capace di mettersi a carponi e di emettere suoni animaleschi finché qualcuno non lo accarezzava sulla testa. Allora si acquietava. Come un cane. Oppure iniziava a mordere i presenti o ad aver un comportamento talmente spietato e cinico che faceva scomparire la normalità sbriciolandola. Quando i critici commentavano le sue poesie davanti a lui, invece, si gettava per terra ed iniziava a contorcersi come un indemoniato”. Qui era teatro puro. Allo stesso tempo in quegli spazi temporali era la sua poesia. La moglie non fu propriamente felice della vita con lui, lasciata sola in un pezzettino provincialotto di Galles. Caitlin, fortunatamente per lei, comunque riusciva a non farsi fregare dalla desolazione. Con questa biografia si riesca a scendere e salire in tanti aspetti d’una vita umana e si deve sempre tener presente che si entra nelle stanze d’un poeta a dir poco eccentrico. Siamo nella camera d’un poeta pazzesco. In tanti casi. Dylan Thomas fu menefreghismo spicciolo, occorre aggiungere. La spietatezza che fu era ricambiata da goccioline di spietatezza che la vita reale riusciva ad assicurargli. Il verso è libero, come libero sarà per centinaia d’anni ancora di volteggiare nei tempi.




Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere d’astuzia e di birra, di Paul Ferris, a cura di Cecilia Mutti, traduzione di Francesca Pratesi, prefazione di Gian Paolo Serino, appendice con due poesie inedite (Fidenza, 2008), pag. 520, euro 20,00.

mercoledì 24 settembre 2008

Domenico Protino e La Guerra dei trent'anni







DOMENICO PROTINO e “LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”

Domenico Protino nasce a Torre Santa Susanna. Sin da giovanissimo si appassiona alla musica e al suo mondo.. Il 2000 per lui è una data fatidica: decide che la musica sarà la sua vita e allora a capofitto comincia, a crearsi ogni possibilità di esibizioni live - in cover band ma anche da solista nelle vesti di cantautore – partecipando a concorsi canori nazionali man mano sempre più prestigiosi fino ad arrivare alla vittoria del rinomato Premio Lunezia Giovani Autori 2007 che riconosce il valore sia musicale che testuale delle canzoni italiane, con il brano dal titolo "W la vita". Il 2008 è l’anno che lo porta su scenari internazionali, e per la precisione oltre oceano: Domenico viene selezionato come unico rappresentante italiano al Festival Internazionale della Canzone di Viña del Mar in Cile (il più importante festival dell’America Latina e unico gemellato con il Festival di Sanremo) vincendo con il brano "La guerra dei trent'anni” aggiudicandosi due “gaviotas de plata” ovvero i premi come migliore autore e migliore interprete. Parliamo di un giovane cantautore, che gestisce diversi codici sonori (orecchiabili, curati in ogni suo aspetto) e diversi impegni sul senso testuale, che ama non limitarsi a essere bardo di se stesso, ma occhio critico attento a quello che succede oggi Il suo primo album “Domenico Protino”, consta di 10 brani. Registrato presso gli studi Panpot di Brindisi e mixato allo Studio S.Anna di Castel Franco Emilia (Modena) e al Creative Mastering di Forlì, suonato interamente, oltre che da Domenico, da musicisti pugliesi, è realizzato sia in lingua italiana che in lingua spagnola per il mercato latino-americano; scaricabile da iTunes e in vendita nei negozi dal 26/9 distribuito da Warner Music Italia Srl.
Il prossimo venerdì 26 settembre, presso la Feltrinelli di Bari (h. 18.30) si svolgerà lo showcase di presentazione, nella sua terra, la Puglia.


la canzone in video di Domenico Protino ha come titolo L'odore dei ricordi

martedì 23 settembre 2008

SAMUEL BARBER’S ADAGIO FOR STRINGS di Silla Hicks. Parte Prima ovvero la Cena che non c'è

Ci sono storie che non sono solo amore, ma una vita intera, in cui s’intrecciano tante vite, e ci si impara a conoscere e a spiegare. Ci sono storie in cui anche chi non ti ha mai accettato impara a capirti e se non a volerti bene almeno a stimarti per il genero imperfetto che sei, o che avresti potuto essere. Adesso lo so, che con tuo padre è successo, perché mi ha abbracciato e camminato vicino, nell’ultimo giorno in cui eravamo ancora noi. E per la prima volta dopo diciotto anni lo so che non ha visto solo un camionista senza studi né posizione ma gli occhi ferocemente fedeli di un cane da guardia, che avresti potuto uccidere senza che smettesse di leccarti le mani. E’ paradossale che sia successo adesso che è inutile, ma so che mi terrebbero alla loro tavola la domenica, con i miei stracci neri e senza la cravatta, e ascolterebbero le mie storie sorridendo. Tua madre leggeva Jorge Amado, una volta: ho conosciuto Gabriela nella sua libreria fitta di libri di ogni tempo e luogo, anche se non credo che lo sappia, né che immagini quanto quel mondo profumato mi abbia portato lontano. Potrei dirglielo, magari. Adesso, so che mi starebbe a sentire, perdonandomi per tutto il resto che non so imparare, per tutto quello che mi fa impresentabile, sempre, come sono io.

E tutto questo mi fa rabbia, sai. Mi fa rabbia la vita finalmente serena che avremmo potuto avere oggi, mi fa rabbia che sia sempre tardi, quando la guerra finisce.

Per questo – e per tante altre cose – mi sono chiesto che faccia avesse, lui che forse avrà la mia cena che non c’è, la mia frittura di calamari, solo anelli, anche se no, lui non è un tedesco, lui il pesce vero sicuramente lo sa apprezzare e non mangia fritturine da ignorante, quando ha la fortuna lussuosa di un ristorante da cui si vede il mare. Quello della fritturina – annaffiata di limone, così che il pesce si senta appena - sono io.

Io, che non gli ho mai voluto dare un volto perché non fosse mai reale. E che la sua faccia l’ho chiesta – a bruciapelo, ma non c’è altro modo di sparare – all’unica persona che potesse raccontarmela, l’unica che l’ha visto e che io conosca – no,anzi: di cui mi fidi - abbastanza da poterlo fare.

Sono uno stronzo, sì. Perché l’ho chiesto, e perché l’ho chiesto a tua sorella, e perché com’era giusto facesse – perché è tua sorella, ma soprattutto perché è stata mia amica anche quando non lo era nessuno – ha saputo volare sopra alla risposta, mi ha solo detto che non lo ricordava.

E mentre lo diceva era di nuovo la ragazza che ci ha ospitati entrambi a casa, quando non avevamo nemmeno da mangiare ma avevamo tanto amore da essere miliardari, e mi faceva trovare sigarette e il riscaldamento sempre acceso, e la notte lavoravamo tutti alla tua tesi di laurea, e ci addormentavamo alle cinque, sognando la Grecia.

E’ stata capace di dire che non ricordava, se è alto o basso, ha detto solo che ha una corporatura normale e i capelli scuri, testuale, e non c’è niente di più impossibile, perché lei disegna, e ricorda particolari di pale medievali e di strisce di Dylan Dog con la stessa facilità spontanea e disarmante, particolari piccoli e messi negli angoli, non nasi e bocche dentro a un volto umano.

Non ho insistito, e poi abbiamo parlato di altro, prima che partissi, mi ha lasciato andare con la speranza che non merito, è durata dieci chilometri, prima del buio, della disperazione vischiosa di cui il resto del mondo sembra immune.

Perché io lo so, dove stai stasera, e che per lui stai mandando a puttane tutto senza non dico rimorsi ma neanche rimpianti, che non ti frega più, di dove sto e di quanto fa freddo, ed è giusto così, se mi metto nei tuoi panni, ma se mi metto nei miei mi sento morire, e vaffanculo, cazzo, io nei miei ci sono, e non posso cambiarli anche se mi tirerei via la pelle a unghiate, per quanto fa male abitarla, in questo cazzo di momento che è un inferno eterno, che non ha inizio né fine, come te, come i miei ricordi.

E non mi resta che versare litri di dolore su questo pavimento, le tracce dei miei anfibi che non voglio cancellare, l’ultima – l’unica - traccia che sono esistito.

Perché sono esistito, cazzo, questo spettro è stato un uomo, ho conosciuto altro che non sia l’assenza, non sono sempre stato un pacco disperato e solo.

Ho avuto giornate e notti e anni. Soltanto, sono finiti, prima che finissi io.

Anche se ho visto film blu e un pezzo del decalogo. Anche se posso rivederli, ogni volta che voglio, senza neanche chiudere gli occhi.

Come nel testamento di Kubrik, eyes wide shut. Con gli occhi spalancati, a qualsiasi costo.

Per tutti i nostri film che non ha visto, ti supplico di tornare.

O almeno di mentirmi.

Non ho la forza di guardare ancora.

L’unica bellezza che resta al mondo è il sogno di svegliarsi ovunque sei.

Il resto, è solo un cumulo di macerie, e vaffanculo quale sia la bandiera che ci sventola, vaffanculo quanto sia grande il mondo. Io sono qui, io aspetto, nel nostro mondo. Ci sarò, quando ti deciderai a tornare, e il resto del tempo sarà la notte del terremoto di Volos, quando siamo usciti in strada e abbiamo visto l’alba, e la gatta coi gattini, e ci siamo abbracciati, e nella luce del sole abbiamo pensato che qualsiasi cosa fosse frattanto successa nel resto del mondo, noi eravamo ancora lì, eravamo insieme, ed eravamo ancora vivi.

giovedì 18 settembre 2008

Spider di Silla Hicks

Mia sorella è un matematico, ma lavora in un ufficio per campare, e rincasa tutte le sere per le sette a trascorrerle giocando al computer con la TV accesa, sempre lo stesso gioco, un solitario preistallato con le carte chiamato “spider”.
Non so come faccia, ogni sera, anche se no, non si può parlare di divertimento, sarebbe più esatto dire che continua a giocare, caparbia, gli occhi sospesi tra il verde e l’oro - il viale di platani su cui in un’altra vita andavamo a scuola – fissi vanamente allo schermo, per ore intere.
Lei dice che la TV le fa compagnia, che è un rumore di sottofondo, ma non è vero: so che segue ogni fotogramma, perché poi me ne parla, spezzoni dei miei film sul suo vecchio mivar, ricorda ogni parola dei dialoghi senza neanche leggere i sottotitoli e frattanto macina punti, ogni sera per sette sere la settimana e trenta o trentuno al mese e trecentosessantacinque o trecentosessantasei all’anno, gli occhi fissi, così che non mi accorga – io, l’invasore del suo minuscolo spazio arroccato di fotografie – che sta piangendo.
Non dice niente, e frattanto beve la sua infima lager da 2,99 la cassa, e fuma le sue diana blu, o anzi fumava, perché adesso ha smesso, per fargli piacere.
Mia sorella che sa a memoria centinaia di teoremi e mi ha spiegato l’algebra coi fagioli quando io facevo la terza superiore e lei la seconda media fissa lo schermo, e le lacrime le rigano la faccia: è una donna abbastanza alta, almeno per la media di qui, 1,69 c’è scritto sul suo passaporto, nel quale ride ed è bellissima con i capelli quasi rasati di un biondo che assomiglia al mio, il giorno prima che partissero per la Grecia, quando mi chiamava ogni tanto e pensava di poter sopravvivere senza di me, anche se non ha mai imparato a nuotare bene.
Ma adesso li ha sono tinti di un rosso improbabile ed è solo piccola come il resto del mondo, uno scheletro che ha sempre freddo e porta i miei maglioni che le arrivano alle ginocchia anche d’estate.
Scrive numeri ovunque, finchè “dura l’intuizione” ripete, e che sarà quest’intuizione io non l’ho mai capito e la venero, per tutto quello che sa vedere che io nemmeno immagino.
Senza chiedermi niente sa tutto e ogni tanto mi fa una carezza, come quando eravamo bambini ed ero il suo fratello maggiore, che non le avrebbe mai lasciato la mano.
Adesso, che siamo due naufraghi aggrappati alla stessa zattera, io sono quello più grosso e più forte, che sa trattenere il fiato più a lungo, quello che vinceva le gare e voleva essere il miglior nuotatore del mondo: per questo mi guarda disperata, e a tratti penso persino che mi odi, perché non mi decido a riprendere a nuotare, io, che ho le braccia e i polmoni per continuare a farlo.
Non ho la forza di dirle che non ci riesco più.
Che ogni giorno è più difficile anche solo stare a galla.
Per lei, sono ancora un ragazzino di dodici anni alto quanto un uomo adulto, che si allena sei ore al giorno e respira il cloro con le branchie che porta nascoste sotto la pelle, e ascolta i Van Halen, e si è forato da solo le orecchie, davanti allo specchio, mentre lei – che ha solo sei anni – è seduta sul bordo della vasca e ride e dice che non è possibile, che nessuno ha tanto fegato da fare una cosa del genere, nessuno a parte me, che sono il fratello maggiore più fico del mondo.
Mia sorella, che non sa andare in bicicletta e guida a stento la sua carriola arrugginita, ma che fa a mente le radici quadrate e si è laureata studiando di notte, perché lavora minimo otto ore al giorno da quando aveva diciannove anni, mia sorella, che è capace di fare un esame di mille pagine in meno di una settimana e di prendere trenta e fa tesi di laurea in qualsiasi materia in pochi giorni per chiunque glielo chieda, ogni sera fissa lo schermo e clicca sulle carte, e la sfida è quanto in fretta e quanti punti, avrà fatto milioni di partite, mentre io fatico a completarne una di livello base, quando ci provo.
Ma lei no, lei compone il mosaico con la facilità devastante del genio che le è stato regalato invano, perché abbaglia tutti in pochi minuti, ma non le serve a farlo tornare: e quando le bottiglie sul tavolo sono tre o quattro – a volte persino meno - smette di nascondere le lacrime e piange, finalmente, si accartoccia sul tavolo della sua cucina e smette di pensare mondi interi in cui i numeri sono personaggi, con una faccia e vestiti e parole. Al modico prezzo di massimo un euro e cinquanta, mia sorella piange, come qualsiasi idiota, come piango io.
Le lacrime le schiariscono gli occhi, e parla solo tedesco, e piange e mi racconta, di quello che le ha detto al telefono, e dei suoi capelli e persino dei suoi piedi: vorrei dirle che nessuno può essere così coglione da lasciarla per sempre, ma non ho il coraggio di raccontarle bugie.
Così l’abbraccio e basta, e se va bene mi ricordo di essere un uomo e di non potermi lasciare andare altrettanto, altrimenti singhiozziamo assieme, nella nostra lingua, e penso che io sono 0 negativo e anche lei, e siamo tutti e due mancini, ma che non può bastare questo a farci tanto uniti, perché non è questione di sangue e nemmeno di geni, non può esserci una soluzione così banale all’enigma immenso che ci ha fatto fratelli.
Se avessimo avuto vite decenti, saremmo rimasti lontani, una volta liberi da quell’infanzia che ci aveva imposto uno all’altra.
Ma adesso che respiriamo l’odore di napalm dell’attesa non abbiamo altra scelta che tenerci per mano, e viviamo nella stessa casa e nello stesso armadio, le mie maglie XXL accanto ai suoi vestitini che andrebbero bene a una bimba, perché mia sorella non mangia, e beve a stomaco vuoto: per questo si ubriaca tanto presto, anche con la birra dell’Eurospin.
L’amore le ha mangiato il cervello, e adesso i suoi numeri sono l’unico amico che ha, a farle compagnia. E’stata bellissima, ora è un uccellino sparuto che potrei tenere nella mano, se non fosse un pitbull rabbioso, che non vuole carezze: quando sono partito stamattina dormiva ancora, accartocciata sul tavolo: generalmente non si corica neanche, si fa solo una doccia prima di andare al lavoro, anche se non glielo dice, ma anzi scherza al telefono quando lui – se ne ha tempo e voglia –si decide a chiamarla, e vuole sembrare ad ogni costo una dura, un vero soldato, che non ha paura di niente, che non si arrende mai.
E infatti quando apre gli occhi è di nuovo così, anche se sta quasi sempre tanto ripiegata sulle proprie spalle da non arrivare a un metro e mezzo, e più che una macchina da guerra sembra una bambola rotta, con lo sguardo che asciugandosi si è scurito dietro agli occhiali macchiati di tinta dei capelli, ma che hanno comprato assieme e per questo non vuole cambiare: e per sembrare più cattiva sporge in fuori la mascella, lei che avrebbe la faccina tonda, e affronta il mondo, ogni giorno, tenendosi tutto dentro fino a sera.
Quando torno, sta stirando o pulendo il cortile, o lavando per terra, inginocchiata, mattone mattone tutto il pavimento di ceramica bianca che si sporca anche solo a guardarla, come per scrostare tutto lo sporco della sua vita e della mia: mi chiama sempre per nome, con il mio nome da antico romano che è un nome da avversario, che io odio ma a lei piace tanto, perché ama gli sconfitti della storia, e poi quel nome ce l’ho quasi solo io. Lei ha un nome comune, invece, che non sopporta, perché sa di poesie e non ci trova niente di poetico, nella vita: avrebbe voluto chiamarsi Irene, o Vanessa, il nome delle sue attrici preferite, avere lineamenti forti piuttosto che una faccia da bimba incredula, non riesco mai a dirle che è più tosta di loro, più bella di loro, perché è ancora qui, ed è ancora viva.
Perché sa la sua matematica, ma anche un sacco di altre cose, perché ha il QI di due persone normali messe assieme, e ha fatto online i quiz del mensa, in otto minuti e due secondi – ne avrebbe avuto quindici a disposizione - ovviamente senza sbagliarne uno: adesso ripete che si è messo sotto le scarpe il suo talento, senza capire che non è qualcosa da cui si può abdicare soltanto perché lui non c’è.
Come chiunque voglia qualcosa senza la quale non può vivere – un rene, un cuore, una donna, un uomo – non è capace di dar valore a null’altro: solo con lui sorride, e quando gli parla esce nel cortile e guarda su, verso il cielo, lungo il loro albero, che è l’unico rimasto nella strada. Lo ha difeso da chi voleva tagliarlo per le sue radici sollevano i mattoni del marciapiede con la disperazione aggressiva della belva che vuole essere per sentirsi al sicuro e cui, se non l’avessi vista tante volte piangere, crederei anch’io.
Adesso lo guarda, e si ripete che lui è là, e cresce, anche se la vita ha smesso di continuare, per noi: l’albero è là, e prima o poi toccherà il cielo.
Mi invidia, perchè il mio lavoro mi porta lontano, mentre lei è ammanettata alla scrivania e a questo posto. Prima o poi, avrò il coraggio di dirle che non c’è un lontano che sia lontano abbastanza, e che non c’è più nessuna Germania, né nessuna infanzia, che alien ormai ci abita, e ci sta divorando da dentro per riprodursi. Prima o poi, riuscirò a guardarla e a dirle che anche a migliaia di chilometri io ti porto nel cuore, che posso vederti o no, sentirti o no, ma mai amarti di meno. Che proprio quando non ci sei ti tengo accanto, sul sedile, accanto a me, e mi volto verso te e ti parlo, ti racconto ogni cosa che vedo. Che non ti vedo, ma ci sei.
Tu, ci sei.
Anche adesso, che non so più dove sono.

mercoledì 17 settembre 2008

Intervista a Pierluigi Mele di Serena De Carlo


















Intervista a Pierluigi Mele, da Il lessico dell’illusione in Pierluigi Mele

Tesi di Laurea in Linguistica Generale. Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli studi Perugia. Laureanda Serena De Carlo, A. A. 2005/2006.


Perché ha scelto di scrivere poesie?
La poesia è una forma dello sguardo, è più probabile che sia lei a cercarti. Probabilmente nasce quando pretende, per oscuri percorsi, il trasfigurato, il rimescolamento delle carte, lo scuotimento dei segni. Cresce allora per una sorta d’inquietudine, come a voler raschiare il fondo di un terreno. Come se la penna, per dirla con Seamus Heaney, valesse quanto la vanga del contadino. Ed è con la penna che un poeta scava.

Quanto è influenzata la sua poesia da altri generi artistici (teatro, cinema, musica)?
L’influenza è totale. Non ricordo se sia stato Alberto Moravia a sostenere che un poeta, quando è a contatto con l’arte, è in casa propria. Forse perché il suo codice espressivo non mira tanto alla comunicazione, all’informare un eventuale pubblico su accadimenti, opinioni, indici di gradimento e mode. Il datore di lavoro della poesia, la sua paga e la sua bolletta, è la bellezza. Che si muove ovunque, nei bassifondi come sul tram, in un quadro come nelle sale d’aspetto.

Come nascono i suoi versi?
Dal distacco. Questo cadenza le occasioni e le finzioni della scrittura, lasciando la possibilità alle cose di disperdersi per poi ritornare sotto una più definita veste nel corso del tempo. Il Tempo, questa religione laica di un poeta per me molto importante come Iosif Brodskij. Secondo il quale “chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una “lettura”, commette un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso”.
Se lo scritto giornalistico abbraccia ed offre l’immediatezza della cronaca per subito stracciarla, la poesia penetra il contingente trasfigurandolo, prendendone le distanze, e fissa tanto il metafisico quanto il quotidiano con uno sguardo affilato nella metafora.

Come avviene la selezione e la combinazione delle sue parole?
Nessuna parola può essere lasciata al caso, anche se dal caso quasi sempre proviene. Le parole devi quasi sbiancarle per riuscire a penetrarle. L’agognata limpidezza dei versi è il risultato di un inesauribile flusso e montaggio, di attesa e ritorno a distanza allo scritto per verificarne i frutti. Un lavoro di sottrazione che punta all’essenza delle cose. Nello spazio brevissimo dei versi, devi contenere quel respiro, quella particella di vita che può essere detta solo in una forma e non in un’altra, con parole nette, definitive, lievi e pesanti insieme.

Crede che la poesia sia il veicolo più diretto per comunicare il suo pensiero?
Credo di sì. Come nella mia produzione teatrale, lo sguardo è sempre di natura poetica. Questo sguardo tende a sgombrare il campo dalle pastoie dell’Io e a misurarsi senza paraocchi col mondo. Parlare di un tramonto, di un’alba o di un autunno equivale ad affermare la vitalità che queste evidenze scatenano, evidenze a cui spesso non prestiamo ascolto proprio perché pensate “dovute”. È con queste evidenze della natura, ma non solo in queste chiaramente, che possiamo avvertire i segni di maturazioni e decadimenti nostri e della stessa lingua.
Un film o una musica per me sussiste soltanto se d’autore, perché espressione autentica di ricerca fatta con quello sguardo poetico senza il quale l’opera cinematografica o sonora risulta un prodotto industriale, legittimo ma destinato al consumo in serie. “D’autore” però non significa di noia. Parlo piuttosto della capacità di rinnovamento, di estro. Pensi all’architettura musicale di Bach, o alla forza di un certo quotidiano in Luigi Tenco. Ad Orson Welles, secondo me il più grande cineasta del secolo. Il suo incompiuto Don Chisciotte è genio allo stato puro. Spesso Welles ha portato sullo schermo storie della letteratura (Kafka, Shakespeare, Cervantes) e sempre con uno sguardo straordinario.
L’aspetto ludico, estemporaneo dell’atto poetico non è escluso da una visione d’autore, tutt’altro. Perché regna un elemento fondante sull’arte: l’istinto, o l’improvvisazione, per dirla col jazz. Per esempio: l’orecchiabilità e quindi il successo di molte canzoni del patrimonio musicale è stato concepito proprio dal guizzo dell’autore, che ha saputo pescare dal fondo il “bene” comune. Lei scuserà questo mio continuo richiamo alla musica, ma credo che appunto una canzone sia destinata a vivere più di tutti i libri che leggeremo.

Quanto incide nella sua scrittura l’ambiente salentino in cui vive e quanto il suo luogo straniero di nascita?
Il Salento non esiste. Il Salento rappresenta un luogo mentale dove si danno appuntamento i fantasmi, le sirene, le suggestioni d’infinite terre. Indica allora una terra che vive innanzitutto nei miti. Significa perdersi in racconti, suoni e colori; o nella luce meridiana, particolarmente amata da quello squisito editore (non ne nasce che uno per secolo) che è stato Vanni Scheiwiller.
Il Salento architettonico, terrestre, marino e culinario è di matrice culturale, non pubblicitaria. Origine comune, credo, a qualunque terra di mito, tanto per affermare non la supposta ed esclusiva identità del Salento, ma la sua alterità.
Quanto al luogo di nascita, esso assume la medesima caratteristica, in quanto luogo di sensi e di rimandi in perenne ritorno. Non posso tacere le suggestioni che il Nord ha esercitato in me: i profumi del verde, della neve, l’aria così folle del favonio, e un ordine, una disciplina che riguarda anche, senza portarla alle lunghe, la puntualità.

Esiste un “lettore-modello”?
Non sempre. Talvolta esiste un lettore immaginario, comune, della porta accanto con cui confidarsi, in un rapporto che vuole provocare sintonie sentimentali. Non credo che si scriva per dei club elitari, se la materia del poetare intende parlare con tutti. Altre volte questo “lettore invisibile” ha un nome, per esempio Oreste Macrì.

Presuppone nel suo destinatario un determinato tipo di formazione culturale?
Non puoi nascondere l’elemento formativo, l’educazione culturale di un lettore. Parlare con tutti è un voler parlare all’intelligenza del cuore, non è il vociare da comiziante. Piuttosto è la prova che fa coincidere lo scritto con il vissuto, che sono dimensioni di un’unica espressione esistenziale. La poesia può essere un fiato che s’insinua nei sensi del lettore, che lo istiga, lo accende e lo mette alla prova. Altre volte è un dialogare con la lingua stessa, in un corpo a corpo che può deliziare o sfinire.

Qual è il significato delle ellissi, delle allusioni, delle citazioni esplicite e indirette che compaiono nei suoi testi?
Forse tutti noi non facciamo altro che riscrivere. L’intera storia della letteratura è un interminabile processo di ri-montaggio. Io sono ciò che leggo e che rubo con gli occhi, esattamente come sono il figlio di una precisa coppia. Sono ciò che ascolto, che imparo e ricerco. Non si tratta di ostentare una presunta biblioteca, ma di abitare con entusiasmo la cultura. Vuol dire rendere testimonianza, tributare chi ha contato.

Chi sono gli “inquilini assenti” di cui parla in una delle sue poesie?
A volte sono questi fratelli o padri della scrittura perduti lungo la strada, che ritornano come dei gatti invisibili dalla finestra. Sono i poeti sconosciuti ai più, spesso scoperti per caso. Autori da ricordare nella maniera più semplice: parlandone, leggendoli ed invitando a farlo.
Ma non sono soltanto questi gli inquilini di cui lei mi chiede. Sono anche gli affetti privati da custodire e difendere con pudore contro il cattivo gusto dell’esibizione, dello svenevole sentimentalismo.

Qual è l’importanza e il senso delle immagini che ritornano più frequentemente nella sua poesia?
Pensi alla stanza a lei più cara della sua casa e agli oggetti qui riuniti, i libri, i monili, le coperte, quello che crede. Immagini ora che gli oggetti comincino a parlare o a muoversi come persone e animali, a provare dei sentimenti di noia, amore, solitudine etc. E che attraverso di essi lei riesca a vedere oltre la sua stanza, alla sua memoria per esempio. In questo gioco il senso canonico del tempo non regge più, perché lei si serve di un oggetto abitudinario come ad esempio un pettine per parlare non so, dei suoi quindici anni. Di momenti dell’esistenza che nella sua stanza non vivono più. Che non sono però sepolti, semplicemente sono altrove. Lei quindi può arrivare a suggerire un’idea del tempo solo attraverso delle figure, come il pettine. Estenda questo gioco dell’illusione a tutto il resto. Noterà come solo le figure contino davvero, di figure ci serviamo per sopravvivere all’oblio. Per questo motivo talvolta utilizzo figure che nel quotidiano non amo, come i gatti, ma che ti consentono come nessuno di provare quello sguardo in profondità di cui è fatta la poesia. È come se vivessi, in quello spazio d’invenzione, da gatto, arrampicandomi dove come uomo mi sfracellerei.

Che cosa significa essere un poeta oggi?
Forse essere scomodi. Oggi come ieri vuol dire non appagare né appagarsi di ipocrite seduzioni, siano queste di natura politica, sociale o esistenziale. Vuol dire coltivare l’inquietudine, scandagliare più che scandalizzare. Stupirsi delle idiozie così come dell’ignoto. E riservarsi un sorriso e una buona battuta, perché prendersi troppo sul serio non mi pare una cosa seria.

Lei sembra contestare indirettamente il sistema culturale attuale. Ipotizza nuovi sistemi? Quali?
Dico solo questa ovvietà: la mercificazione assoluta dei sentimenti sbattuti in prima serata come intrattenimento da deficienti, non è il prodotto di una scelta avulsa da tutto il resto. Se la televisione, per cominciare, si permette di profanare così impunemente la vita (in nome, tra l’altro, di una bugiarda democrazia interattiva), vuol dire che forse nella scuola, l’editoria, la politica, la famiglia qualcuno si è appisolato, si è preso una bella vacanza dalla rivolta. Credo che la cultura sia la rivolta permanente, vissuta attraverso i libri, la musica, il teatro, così come al supermercato, nei campi, in ufficio. La poesia non vive aristocraticamente sulla pagina. Quella della pagina non fa altro che scovare la poesia nascosta nelle pieghe del tempo.

Come definirebbe la sua poesia?
Le domande difficili le lascio a lei.

giovedì 11 settembre 2008

Pietro Berra e i Poeti intorno al Lario














Dalla prefazione al volume del giornalista Pietro Berra

Il Lario cantato dai poeti è, per i più, fermo ai «monti sorgenti dall’acque» di manzoniana memoria o al sole che «ridea calando dietro il Resegone», abbaglio carducciano, visto che l’astro, da quella parte, al limite potrebbe sorgere, come ha documentato l’astronomo comasco Corrado Lamberti. Eppure nel Novecento, e nel primo scampolo del Terzo millennio, sono molti i seguaci della musa Calliope che hanno bazzicato queste zone, traducendo le loro emozioni in versi che, in alcuni casi, già appartengono alla storia della letteratura italiana.



Per due poeti, in particolare, questo angolo di Lombardia è un luogo centrale nella loro storia. Si tratta di due maestri del secondo Novecento. Uno è Giampiero Neri, pseudonimo di Gianpietro Pontiggia, che seppur abiti a Milano da più di 50 anni, quando scrive torna sempre più spesso alla sua Erba, dove è nato nel 1927 e da cui si è distaccato a 16 anni, dopo che il padre fu ucciso nei primi atti della guerra civile. Luoghi e persone della sua infanzia sono molto presenti nell’ultima raccolta, Armi e mestieri, uscita l’anno scorso da Mondadori e lo saranno ancora di più nella prossima, in lavorazione, che si intitola «Piano d’erba», antico nome del paese d’origine. L’altro poeta biograficamente e letterariamente legato a doppio filo con il Lario è Maurizio Cucchi. Il suicidio del padre, avvenuto nei boschi di Uggiate Trevano, è infatti diventato per lui spunto per una ricerca poetica ed esistenziale che ha raggiunto risultati altissimi, culminando nell’Ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), dove il poeta torna sul luogo della tragedia.

Altre volte lago e montagne sono finiti nella produzione di autori importanti per ragioni occasionali. Alda Merini, per esempio, ha scritto una serie di «Poesie per Chiavenna», nate da un viaggio effettuato nella valle della Mera nel 2001 per ritirare il premio Madesimo. Un altro grande, Raffaello Baldini, scomparso qualche mese fa, ha raccontato nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna una gita sul lago di Como, che per poco non gli risultò fatale, essendo finito con il pullman in un dirupo. Il brano si trova in Intercity (Einaudi), che attraverso frammenti di vita come questo ci ha dato una delle testimonianze poetiche più forti del giovanissimo ventunesimo secolo. C’è poi un poeta fiammingo residente in Spagna, Germain Droogenbroodt, che giunto sul Lario da turista se n’è innamorato al punto di tornarci in vacanza più volte e da dedicargli un intero libro, «Conosci il tuo paese?», pubblicato nel 2001 dalle edizioni Archivi del ’900 di Milano.

In un secolo che ha visto concentrarsi nel capoluogo lombardo molti grandi poeti e scrittori, era inevitabile che il Lario e la Valtellina, mete storiche delle gite fuoriporta dei "milanes", finissero prima o poi in qualche loro testo. Così Raul Montanari, stimolato dal comitato per le celebrazioni del centenario di Giuseppe Terragni, ha messo in versi un racconto noir che parte dalla visita a un’edicola funeraria realizzata dall’architetto razionalista nel cimitero di Como. Un sodale di Montanari, Aldo Nove (c’è anche lui nel libro Razionalismo remix), si è divertito a rendere i «finanzieri del distretto di Como» protagonisti di una delirante «avventura di Capodanno» inclusa nella silloge Nelle galassie oggi come oggi (Einaudi), una raccolta di cover, ovvero di testi poetici scritti sui motivi di brani pop-rock, in questo caso «All il full of love» della islandese Björk.

Qualche milanese, inoltre, ha sul Lario la seconda casa, ideale per ritirarsi a scrivere. Prima o poi è giocoforza che lo straordinario paesaggio circostante gli prenda la penna. È stato così per Antonia Pozzi, che prima di togliersi la vita nel ’38, a 26 anni, con un’overdose di barbiturici, ha generato un fiume di poesie, molte delle quali datate Pasturo, nel Lecchese, dove villeggiava con la famiglia. Se lei ormai appartiene alla storia, c’è una altro poeta-villeggiante, Silvio Aman, che sta per pubblicare in una delle più raffinate collane di poesia, quella della novarese Interlinea, la raccolta Fiori del tempo, dove il Lario fa capolino qua e là: inevitabile per uno che ha un appartamento a Mezzegra e fino all’età di 12 anni ha abitato a Cernobbio.

Un po’ diverso è il caso di un altro milanese, Franco Spazzi, che se ha pubblicato tre sillogi nel dialetto di Lanzo Intelvi non è tanto perché lì passa le estati nella casa che fu dei suoi nonni, quanto perché vi trascorse l’infanzia, da sfollato, in tempo di guerra. Pure nell’ultima raccolta del grande, e compianto, Giovanni Raboni, Barlumi di storia (Mondadori, 2002), Como è legata a ricordi del ’43, quando molti vennero da queste parti per cercare una via di salvezza oltre il confine svizzero.

Spazzi appartiene anche alla specie, rara ma non troppo (basti pensare a un Michelangelo o a un De Pisis), dei pittori-poeti, in buona compagnia di un brianzolo l’adozione, e campano d’origine, come Gaetano Orazio. Questi vive a Cremella e lavora, principalmente, lungo il corso del Rio Toscio, sui monti sopra Civate, dove è andato a scovarlo Philippe Daverio con le telecamere di Raitre. Dalla simbiosi con la natura sono nati, oltre a tanti quadri, anche tre libri di poesie, tra i quali Hotel Brianza. Pittore-poeta, nonché critico e drammaturgo, è stato anche Giovanni Testori, un grande lombardo: se Milano è l’epicentro della sua produzione, la Bassa comasca, in particolare Lomazzo, è il "teatro naturale" (titolo di una silloge del già citato Neri) su cui si muove la squinternata compagnia dell’«Ambleto», e Chiavenna, tappa intermedia delle sue frequenti incursioni elvetiche, la si ritrova immortalata nel poema «I trionfi» (1965), nella raccolta di poesie A te (1973) e nel romanzo La cattedrale (1974).

Persino due premi Nobel hanno scritto poesie "intorno al Lario". Luigi Pirandello passa da queste parti nel 1889, diretto all’Università di Bonn, dopo che ha dovuto lasciare quella di Palermo in seguito a contrasti insanabili con il professore di Lettere. Si ferma da amici a Cavallasca. Fa anche in tempo a innamorarsi di una ragazza, sebbene in Sicilia abbia lasciato pure una fidanzata. Ma non è un amore felice, come si intuisce dall’acredine che riserva alla «bruna di Como» nella poesia «Convegno», pubblicata sulla Rivista d’Italia nel 1901 e nella raccolta «Fuori di chiave» del ’13. Un amore perduto aleggia anche tra l’Adda e Ardenno, cantati ne «La dolce collina», una lirica uscita nella sezione «Nuove poesie» della raccolta più celebre di Quasimodo, Ed è subito sera (1942). L’ambientazione non è casuale: negli anni precedenti il geometra di Modica era stato impiegato al genio civile di Sondrio. Una tappa del percorso che nel 1959 l’avrebbe portato ad essere incoronato dall’Accademia di Stoccolma.

Nel periodo valtellinese, Quasimodo strinse strette relazioni con un gruppo di artisti e letterati milanesi, tra i quali un ragazzo del Sud, il salernitano Alfonso Gatto, antifascista militante. Dopo la Resistenza e alcune esperienze da inviato per i giornali del Pci, nell’estate del ’49 Gatto si trasferisce a Carate Urio, ospite di un albergo gestito da amici, assieme alla compagna Graziana Pentich. L’8 ottobre di quell’anno, a Como, nasce il loro figlio Leone. Per più di un anno il papà continuerà a fare il pendolare tra Carate e Milano, prima di trasferirsi nel capoluogo regionale con la famiglia. Ma la parentesi lariana, gravida di affetti cullati dalle acque del lago, riemergerà più volte nelle sue poesie.

Se i milanesi, poeti e non, vengono sul Lario innanzi tutto per "ciapà un pù de aria bona" - come Delio Tessa che ha scritto dei suoi soggiorni a Moltrasio nel libro di memorie Brutte fotografie di un bel mondo - tornano più volentieri se sono motivati anche da qualche interesse letterario. Così Roberto Sanesi, che ha trovato a Como il suo critico più attento e assiduo, Vincenzo Guarracino. Dopo la prematura scomparsa del poeta-pittore milanese, è stato proprio Guarracino a curare l’edizione postuma per la comasca Lietocollelibri del suo poemetto inedito In laude Larii laci, ovvero «In lode del lago di Como», imitazione dell’antico poeta longobardo Paolo Diacono. Un punto di riferimento per i poeti, non solo milanesi ma mondiali, visto che ha pubblicato persino l’icona della beat generation Allen Ginsberg, si trova in Brianza, a Osnago, in una casa con due caprette e un coniglio. È qui che vive e lavora Alberto Casiraghi, «l’unico editore che stampa in giornata», con una vecchia macchina tipografica da cui sono usciti in 23 anni oltre seimila plaquette che abbinano una poesia a un’opera d’arte originale. Tra i più convinti sostenitori delle edizioni Pulcinoelefante vi è Vivian Lamarque, che un giorno, dopo aver stampato da Casiraghi, ha comprato con lui tre sacchi di lumache e le ha liberate nei boschi. Il tutto documentato in una poesia inclusa nel 2002 in un Oscar Mondadori.

Ma «i monti sorgenti dall’acque» non sono solo terra di conquista, o di svago, per poeti forestieri (a partire dal Manzoni che villeggiò a Lecco da ragazzo). Il genius loci, lo spirito del luogo, ha ispirato anche autori locali, che però solo in rari casi sono riusciti a uscire dal territorio. Un limite su cui forse hanno influito, aldilà delle capacità dei singoli, anche i monti e le acque manzoniani, che sono diventati una barriera per i loro versi. È vero che la poesia, come la storia, non si fa con i se e con i ma. Ma viene spontaneo chiedersi se un Basilio Luoni, pubblicato nel ’93 da Dante Isella sull’Almanacco dello Specchio della Mondadori, non avrebbe "fatto carriera" se invece che a Lezzeno, sulla sponda orientale del Lario, avesse abitato a Milano o a Roma. E un Vito Trombetta, che vive a Laglio e scrive nel dialetto di Torno, non sarebbe arrivato prima dei 60 anni alla pubblicazione per un grande editore, conquistata solo di recente con una dozzina di testi inseriti nell’antologia di Einaudi Nuovi poeti italiani 5? Ma forse, nel mondo delle comunicazioni superveloci, qualcosa sta cambiando, se Francesco Osti, ventinovenne di Morbegno, è stato incluso da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi nell’antologia Nuovissima poesia italiana, uscita lo scorso Natale da Mondadori.

Più fortuna, finora, hanno avuto alcuni migranti, che tuttavia non hanno mai abbandonato il legame, anche letterario, con il paese natale: Giancarlo Consonni, meratese, docente al Politecnico di Milano, dove vive, habitué di Scheiwiller ed Einaudi; Giuliano Dego, colichese, docente alla London University, pubblicato in poesia nelle edizioni del medesimo ateneo e in prosa nella Bur; Grytzko Mascioni, che dalla natia Madonna di Tirano ha girato l’Europa, è stato cofondatore della Televisione svizzera, ha pubblicato romanzi e poesie da Mondadori e Rusconi, ha lavorato in Grecia, Francia e Croazia, fino alla morte che lo ha colto a Nizza nel 2003.

Mascioni è esponente di un’altra specie, quella dei poeti di frontiera, che intorno al Lario ha trovato in suo habitat ideale. Si pensi a un Fabio Pusterla, nato nel ’57 a Mendrisio, con doppia cittadinanza e residenza, una a Lugano, dove insegna al liceo, e l’altra ad Albogasio, frazione di Valsolda, sponda comasca del Ceresio. Le "terre di mezzo" tra l’Italia e la Svizzera, come la Val d’Intelvi, sono molto presenti anche nella sua ultima raccolta, «Folla sommersa», uscita nel 2004 da Marcos y Marcos. Un’altra dogana, quella di Ponte Chiasso, ha visto e vede passare con una certa frequenza Alberto Nessi, anche lui nato a Mendrisio (nel ’40) e cresciuto a Chiasso. Senza dimenticare Angelo Maugeri, uno dei poeti lanciati negli anni Settanta dalla mitica collana «I quaderni della Fenice» di Guanda, che dalla natia Messina si è trasferito a Campione d’Italia, enclave comasca in territorio elvetico, dove insegna e presiede l’Associazione scrittori della svizzera italiana.

Per mantenere viva la fiaccola della poesia, soprattutto in piccole patrie come Como Lecco e Sondrio, è fondamentale il ruolo di alcuni entusiasti "sacerdoti" delle muse. Tra i più attivi Claudio Di Scalzo, che dopo essere nato a Vecchiano, in provincia di Pisa, ed aver pubblicato il romanzo epistolare Vecchiano, un paese da Feltrinelli, è approdato a Chiavenna, dove dirige la rivista Tellus, porto sicuro e accogliente per i vari Mascioni, Luzzi, ma anche per le «Poesie per Chiavenna» della Merini, e l’Accademia Bertacchiana.

Posto che nel Novecento, e ancora di più nel Duemila, nessuno può dirsi poeta di professione (Montale, non per niente, si presentava come giornalista), e che il titolo oggi viene dato dalla critica, è inevitabile che nascono dei "conflitti di interesse". Se alcuni poeti si sono affermati anche come critici - Franco Loi, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici -, qualcuno ha percorso autorevolmente il cammino inverso. Per rimanere "intorno al Lario", vanno citati almeno due casi: Giorgio Luzzi, firma della rivista Poesia, ha pubblicato raccolte da Crocetti, Marsilio e Scheiwiller (ma in questa sede ci interessano soprattutto degli inediti legati alla Valtellina, dove è nato e spesso fa ritorno, mentre vive a Torino); il brianzolo Fulvio Panzeri, che, tra le tante cose, ha curato l’opera omnia di Testori e Tondelli per Bompiani, ma ha anche editato da Guanda, nel 2000, la silloge L’occhio della trota.

Storia a sé fa Davide Bernasconi. Per i più è Van De Sfroos, il bardo delle Tremezzina che ormai ha conquistato l’Italia e anche un pezzo di Europa. Canzone e poesia, si sa, sono cose diverse («La canzone ha bisogno di un accompagnamento musicale - dice Loi - la poesia ha la musica dentro»), e a volte i poeti si arrabbiano quando vedono definire poesia le rime elementari di un Guccini. Ma il Bernasconi di Mezzegra è al di sopra di ogni sospetto: la sua per ora unica raccolta di poesie, Perdonato dalle lucertole», risale al ’97, prima del successo da cantautore. E tra un concerto e l’altro, ma ormai anche tra un romanzo e l’altro (ne ha uno in uscita da Bompiani), ogni tanto sente ancora la necessità di scrivere una poesia.





Pietro Berra è nato a Como nel 1975. Giornalista, lavora al quotidiano “La Provincia” e collabora con il settimanale “Diario”. Ha pubblicato le raccolte di poesie Un giorno come l’ultimo (Dialogo, 1997), Poesie di lago e di mare (Lietocolle, 2003) e Poesie politiche (Luca Pensa Editore, 2005), la biografia Giampiero Neri. Il poeta architettonico (Dialogolibri, 2005); i libri di inchieste e reportage giornalistici La scena immaginata (Nodolibri, 2002), Carla Porta Musa cento anni a Como (Enzo Pifferi Editore, 2002) e Sei frustate per una rapa. Storie del Novecento (Marna, 2004); il volume di storie e leggende lariane Nel paese dei pescaluna (Marna, 2004). Come poeta ha collaborato con diversi artisti: Gin Angri, Franco Spazzi, Silvio Nocera e Alfredo Taroni nelle plaquette delle edizioni Pulcinoelefante, Alessandro Berra nel librino Un piccione a New York (Signum, 2001), di nuovo con Taroni nel racconto in versi sugli schiavi di Hitler Disfattista! (Lythos, 2002) e con Gaetano Orazio nella mostra e nel cd-rom Fiume Aperto (galleria “Il Salotto”, 2004).

Aa.VV. Poeti intorno al Lario a cura di Pietro Berra
Volume realizzato in collaborazione con l'assessorato alla Cultura della Provincia di Como

in foto Pietro Berra

sabato 6 settembre 2008

Alessandra Contini mi fa sentire un Pop Porno




Pop Porno

Tu sei cattivo con me
perché ti svegli alle tre
per guardare quei film
un po’ porno

Tu sei cattivo con me
perché mi guardi come se
io fossi un’attrice
porno

Porno Pop Porno Pop Porno
Pop Porno Porno Porno

Tu sei cattivo con me
perché ti piace sognare
quei tipi di donna
un po’ porno

Tu sei cattivo con me
perché mi lasci da sola
e ti guardi quei film
un po’ porno

Porno Pop Porno Pop Porno
Pop Porno Porno Porno

Ma quando viene sera
tu mi parli d’amore
e guardandomi negli occhi
mi fai sentire davvero
una donna un po’ porno.

mercoledì 3 settembre 2008

Aiutami di Paolo Grugni





booktrailer posted on youtube by Paolo Grugni





Questa storia è la storia di cinque animalisti: Ricky, Bruno, Claudio, Sara e Giovanni. È la storia dei loro ideali, dei loro dubbi, dei loro sogni, della loro voglia di un mondo più giusto per uomini e animali. Siamo nel novembre 2008, a Milano, quando in un convulso fine settimana i cinque protagonisti mettono in atto il rapimento di Luigi Banes, cacciatore e assessore della regione Lombardia. Lo trasportano in Valtellina e lo tengono sotto sequestro, poi all'improvviso tutto cambia e i ruoli di forza all'interno del gruppo portano a una piega degli eventi diversa da quella prevista. Fino alla conclusione che inchioda ognuno alle sue responsabilità, lettore compreso. Questa storia è anche la storia della passione di Ricky per la musica: avrebbe voluto fare il paroliere e invece è finito in fabbrica. Il 10 novembre, giorno in cui la vicenda trova il suo epilogo, è l'ottantesimo compleanno di Ennio Morricone, il più grande compositore contemporaneo, e Ricky vuole fargli gli auguri. Chissà se ci riuscirà. uesta storia è inoltre la storia dell'amore di Ricky per Giulia, appena conosciuta ma già al centro dei suoi pensieri. Un amore che accompagna, in modo tenero e disperato, lo svolgersi dell'azione

special tank to Gabriele Dadati - Barbera editore

martedì 2 settembre 2008

Hier und Jetzt - Qui e ora di Silla Hicks
















Schegge di te

luccicano ai bordi delle strade

sotto la pioggia lurida

in cui annego con i miei stracci sporchi

di questo tempo inutile

non sapevo che il niente

mi aprisse voragini

tarli che mi fanno polvere

radioattiva



un chilometro dopo l’altro

una vita dopo l’altra

mi tengo assieme con pezzi di spago

una valigia di cartone

dimenticata in aeroporto

senza indirizzo:

come faranno a rispedirmi a te

domani.

giovedì 28 agosto 2008

Ordem e Progresso di Adriana Maria Leaci

È passato tanto tempo…
E a pensarci oggi
A vederti in foto
A seguirti sui giornali, riviste e tv
A sentire i parenti, amici e conoscenti
sei tanto cambiato.
Succede spesso.
Pensi di conoscere tutto
di sapere ogni dettaglio
di prevedere ogni evento.
In verità non sai niente
Ti sfuggono particolari
Non riconosci i colori
Dimentichi le parole che hai condiviso…
Quando ti ho lasciato
mi sembravi intrappolato dagli artigli della gente
La gente che ti sfrutta e che ti spreme
si arricchisce a tue spese e ti consuma
vantandosi dei beni che hai
a totale disposizione di chiunque.
Ti amavo troppo per restare solo a guardare
per assistere senza poter fare nulla.
Era il tempo dell’abbandono
Ti hanno lasciato milioni di volte
Per tornare di corsa piangendo
Come ho fatto io
Pensando di rimanere e rifarmi una vita
Invece ti ho deluso ancora
ho rifatto le valigie e ti ho salutato
in lacrime
per tornare quando
semmai Dio vorrà
Anche Iddio è tuo
L’hanno detto in tanti
In parte sei rimasto lo stesso…
Laddove non sono riusciti a toccarti
Laddove non c’è da togliere più niente
Laddove sembra vuoto
sembra
Quando ti ho lasciato
Credevo che ti avrei dimenticato
Chi ti sarà mai fedele abbastanza
e come me
ti rimpiangerà per sempre
Chi guarderà la tua gola e scoprirà le lenzuola?
Chi rimarrà con te fino alla fine
e avrà il coraggio di difenderti
Ti amerà senza condizioni
morirà per te
E solo così ti potrà dimenticare

martedì 26 agosto 2008

Lanterne Rosse, Parole Nere di Silla Hicks

Zang Ymou dei miei sogni di tigri e dragoni dice che i diritti umani ci fanno fragili, e forse è vero: solo dalla frusta e dalla paura e dal divieto di pensare cose diverse può nascere la perfetta compattezza di una coreografia senza errori, sbavature, fogli accartocciati sul pavimento e file interi chiusi senza salvarne un rigo, senza rimorsi né rimpianti né lacrime né rabbia: tutto il ciarpame che ci fa copie mal riuscite di dio, foglie umane perdute dentro al vento.
Zang Ymou delle mie notti illuminate di lanterne rosse dice che l’autodeterminazione è stata un regalo cattivo, che non sappiamo usare e di cui siamo indegni, che ci fa angeli caduti che hanno barattato ali di albatro per un bacio allagato di lacrime in cui finalmente annegare: l’eternità per un secondo tra le tue braccia, il nuotatore che potevo essere per quest’uomo che non è più niente.
So che se gli dessi retta, e mi strappassi via una buona volta le tue iniziali dalla pelle, forse rimarrei vivo, ma mi dispiace Zang, non ne varrebbe la pena, no.
Tu credi che la perfezione abbia valore: non ti accorgi che quello che fa i tuoi film immensi è il tuo occhio umano, e il fatto che feriscano e commuovano altri umani: il tuo dio di perfezione non ci crederebbe, ai tuoi combattimenti aerei o alla bellezza di Gong Li, ti direbbe che non sono possibili, che non sono reali, perché non ci sono foreste dove i pugnali volano e solo un pazzo visionario e umano può vederle.
Perché dio non sogna che se stesso, e tu lo sai: e seduto da qualche parte nel suo empireo vuoto quasi sempre guarda da un’altra parte, mentre il sangue si allarga sulle piastrelle del mondo, che sia ebraico o armeno o tibetano non cambia niente, a differenza della pelle ha sempre lo stesso colore, come le divise imposte da ogni tiranno, in ogni tempo e luogo, anche in quello in cui tu ti dici fiero di essere.
Pensi che ribellarsi non serve a niente, Zang, e hai ragione, nel senso che c’è sempre un carrarmato che può venirti addosso, e che non c’è pietà per i vinti, anche se si sono arresi: ma forse non ti rendi conto che il ragazzo di Tienanmen o quello con la bandierina che saluta gli alleati nelle ultime pagine di Malaparte muoiono nello stesso modo, è vero, ma i cingoli che li riducono in poltiglia non bastano, a cancellarli davvero.
Perché quelli che restano li ricordano, Zang, e li ricorderanno anche quando la tua Gong Li sarà una vecchia signora che non può più stregare il mondo scoprendo una spalla, e tu firmerai il tuo ultimo addio, e vincerai il tuo ultimo premio, e io ti guarderò per l’ultima volta in un cinema vuoto, come ho sempre fatto, in questi anni, con le lacrime agli occhi e dimenticando le parole che hai detto oggi, perché puoi dire quello che ti pare, ma il tuo cinema non è una parata di regime, ma una rivolta, la prova vivente che i sogni esistono, e che non c’è dittatura che li possa imbavagliare.
Senza accorgertene, è questo che dici, Zang, questo e non che è bello guardare burattini in fila telecomandati dietro al filo spinato della Corea del Nord : ne sono sicuro, perché ho visto “Non uno di meno” il più grande e sconosciuto dei tuoi film, quello più delicato e meno epico e fuori dal cinema ci siamo sentiti fortunati del tuo rivoluzionario regalo.
Dal villaggio polveroso alla megalopoli per ritrovarne uno: senza eroi né sciabole né salti, solo una ragazzina cenciosa che più che maestra è una capoclasse, la cui unica disciplina non è la frusta ma il cuore, lo stesso che fa tornare un superstite indietro a recuperare i compagni, a rischiare la vita.
Lo so che ci vuoi credere, che il tuo sia il migliore dei mondi possibili, per dormire ogni notte e non pensare di essere come me, perduto come un pacco per il mondo, con il peso delle tue origini e della tua lingua e del tuo cognome, la faccia del buio che ti guarda dallo specchio: so come ci si sente, a sembrare un SS, come la gente ti guarda, io sono nato il 10 novembre del ’72, ma non basta a convincermi di non essere mai stato dalla parte sbagliata, non ho fatto il soldato ma sono un tedesco, anche adesso che sono qui, anche adesso che parlo italiano, e che il suo cuore è l’unica casa che posso avere, l’unica cui voglia tornare, l’unica in cui non sia straniero.
So che hai paura, Zang, paura per tutto quello che sei diventato, paura che tutto finisca, per un carrarmato o qualsiasi altra cosa, il dalai lama o l’America, la storia che non puoi cambiare.
Ma ti prego, Zang, per me e per tutti quelli che hanno volato con la tua tigre, per tutti quelli che in tutto il mondo hanno visto i tuoi sogni e li hanno respirati diventandone schegge, e che se li portano in giro stretti per la mano, non fare l’errore di Leni, non guardare il mondo da sopra una gru per non vederne le ferite che marciscono, per non sentirne l’odore.
Il nostro mondo cade a pezzi, è vero.
E anche il mio cuore.
Vivo di scatolette, non sono più capace di dormire, ma non voglio sonniferi che non mi facciano sentire dolore.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio non sentirlo.
Non hai idea di quanto sarebbe peggio, non essere così imperfetto, non volere morire né farlo poco alla volta ogni giorno.
Svegliarsi ogni giorno solo perché qualcuno gira la chiave nel quadro.
Senza scegliere di farlo, oppure no.
L’autodeterminazione è il caos, è vero, Zang.
Ma è da là che veniamo, non da un frattale. Per questo pensiamo tutti cose diverse, e le facciamo, e sbagliamo, e poi rifacciamo tutto da capo.
Infinite volte.
Fino alla fine del mondo.
Mentre dio ci guarda.

sabato 23 agosto 2008

Oz di Silla Hicks

Quando sei giovane, e ti senti il re del mondo, e non hai paura di niente perché pensi che dovrebbero essere loro ad aver paura di te, mentre una tegola ti fracassa il cuore senti il dolore, è ovvio, ma sei anche capace di aspettare che si rimargini, di star fermo e buono e non muoverti, finché non passa.
Ma quando ti guardi allo specchio, e ti rendi conto del perché nessuno ti chiama più ragazzo, e la faccia che ti fissa non è nemmeno più la tua, quando sei troppo stanco persino per farti la barba al mattino, e vaffanculo se hai una grattugia di spighe mal tagliate al posto della pelle, e ti infili a tentoni la stessa maglia che portavi ieri ed anche il giorno prima, e vedi un film fino alla fine ma non ti ricordi il titolo e nemmeno una scena, allora è tutta una altra storia, non pensi più che ne uscirai vivo, e nemmeno che ne uscirai più.
E pazienza se la gente pensa che sei forte, che potresti sradicare alberi e abbattere uomini con una testata: pazienza se qualche stronzetta ventenne dice persino che sei bello, con i tuoi occhi allagati di acqua trasparente e vuota, e vorrebbe portarti al letto, anche, come se bastasse scopare per spegnere il cervello: dieci anni fa svuotarsi i coglioni poteva anche bastare, ma adesso no, cazzo, non è più così.
Adesso guardo fuori che sta piovendo e mi sciolgo nell’acqua e non ci sono, o almeno non ci sono davvero.
Nei tergicristalli pezzettini di me attaccati alle gocce,e quando ti deciderai a metterli in ordine, a raccontare com’è andata per davvero.
Ma il fatto è che forse non lo so neanche più, com’è andata, non lo so e non me ne frega e vorrei soltanto che tutto si spegnesse, questa estate e l’autostrada e le code e la gente che va in vacanza, e questo nord che affonda in un monsone adesso, a ferragosto, la tempesta del secolo e io nell’occhio del ciclone, cazzo, almeno potesse portarmi via, su fino al cielo sopra al mondo di Oz per poi lasciarmi ricadere, con la motrice addosso, i miei anfibi che spuntano da sotto alle lamiere invece dei pedalini a righe della strega dell’Ovest e tu vestita come Dorothy che mi guardi stupita, la nostra vecchia Margot come il cagnolino spelacchiato Toto, e pazienza se quello era nero e lei è bianco sporco, chissà se te la ricordi, Margot, o se il tipo ha cancellato anche lei.
Ma invece non succede niente, piove e basta, e né questo né nessun uragano mi portarà da nessuna parte, e comunque sopra all’arcobaleno non ci abita nessuno, anche se io e te ci siamo stati, a volte, e no, non ci credo che non ci torneremo a vita, lui saprà la chimica e avrà una laurea e la faccia di Raul Bova, me l’hai detto ma non ci credo, e vaffanculo a lui e alla sua perfezione e vaffanculo alla sua generosità e alla sua intelligenza, vaffanculo, sì, perché è uno stronzo figlio di puttana sguaramazze del cazzo, e me ne strafotto se non è politically correct, io non lo sono.
Perché è vero che non c’è paragone, stavolta: non ci credo, ma lo so che lui è perfetto, un professionista, che parla una lingua sola e ha una sola patria e una statura accettabile e gli occhi di un colore vero, mentre io…sono solo me.
Un ignorante, una bestia con il cranio rasato e un cuore spezzato tatuato sopra al braccio: non sembro un principe ma piuttosto un wrestler deportato all’inferno, puzzo di fumo e di sudore, porto gli occhi incongrui di un androide e sfioro ogni stipite con la fronte.
Eccessivo, ingombrante, sempre fuori posto, non riesco a trovare vestiti né scarpe e parlo ogni lingua con l’accento sbagliato.
Non ho una patria in cui non sia straniero.
Sono la testa mozzata di Elias il maniscalco, che rotola nella polvere a metà della prima pagina di Q, e insieme le braccia alzate di Elias il marine, che negli ultimi venti minuti di Platoon viene falciato mentre gli elicotteri si allontanano: tutti e due hanno capito troppo tardi che nessuno verrà a prenderli, mentre gli alieni arrivano, e io lo capisco adesso, che finalmente so che ERI TU LA MIA VAZQUEZ, e sai che vuol dire, per me infinitamente più di un ti amo che chiunque può spergiurare.
Vuol dire che tu saresti tornata, sempre.
Saresti tornata, e li avresti fermati, sventagliando a tappeto mentre uscivano dalle sfottute pareti, e mi avresti raccolto sventrato chiudendomi le ferite con le dita.
Ma adesso no: adesso io sono Elias, tutti e due.
E non serve dirti che lui non ha bisogno di te, perché è già il settimo cavalleggeri, l’apprendista con la bisaccia, Chris il superstite, Ripley.
Lo sai, ed hai scelto lo stesso.
Forse, è giusto così.
Io non sono in carriera, non ho soldi né un lavoro buono, non sono un professionista in niente, non sarò mai qualcuno.
Non posso offrirti niente: ho le mani vuote, e tra poco sarò tutto vuoto, potrai gridarmi dentro ma ti risponderà solo l’eco, dovrei farmi una doccia e smettere di piangere, ma non voglio fare né una cosa né l’altra, non voglio più fingere di essere: me ne fotto di tutto questo cazzo di mondo di merda, sì, avete capito tutti, adesso basta, game over.
E vaffanculo se invece dovrei svegliarmi riposato tra quattro ore e sistemare il disco e ripartire, dicono alla TV che non dormiamo e guidiamo ubriachi fradici, cazzo, bastasse bere e non dormire per essere come sono io adesso, due mani sullo sterzo senza più né testa né cuore, carne da macello di cui non frega niente a nessuno.
Loro che ne sanno, di com’è stare soli, che ne sanno di com’è, quando i chilometri sono l’unica fottuta speranza che hai, di allontanarti da te, perché non hai niente a cui tornare.
Che ne sanno di com’è, quando non te ne frega niente di niente, e non dormi per niente, altro che quattro ore, perché sgrani gli occhi solo sull’incubo in cui sei da sveglio: che ne sanno di com’è, quando la strada ti ha triturato, e sei solo gli avanzi di una bestia investita nel retrovisore.
Se mettessi la strada che ho fatto negli ultimi sedici anni un chilometro appresso all’altro, credo che ne uscirebbe un nastro lungo da infiocchettare il mondo dieci volte: finalmente un bel regalo, da lasciarti in cima alle scale un’alba senza sole, una lettera d’amore che non sia solo parole messe in fila una notte che le lacrime ti hanno lasciato abbastanza occhi per riuscire a scriverle senza mangiarsi l’inchiostro, oltre che sfilacci di quello che resta di te.
Si, lo so, in questi giorni non lo scarteresti neanche, ma dovrà pur finire, e allora io sarò qua, se ci sarò ancora.
E ci sarà anche il mondo, questo e quello di Oz, dove tornare.
Weh spricht vergeh, no, non è vero che passa, vaffanculo Nietzsche, lurido nazista del cazzo, non è vero che passa, ma io sono qui, e sono i due Elias in uno, non mi serve la scure e nemmeno un M16, vienimi addosso, non mi fai paura.
Stanotte niente quattro ore di sonno, e nemmeno di pianti, stanotte che la luna è uno spicchio appena e io sto qua come Ciaula e tutto il mondo è un’immensa miniera nera.
Ma la luna c’è, comunque, e io so che esiste.
Oz è ancora là.
E anche tu ci sei, sotto la mia pelle, nelle mie ossa, nel mio sangue.
Sei la mia Vazquez, e tornerai a prendermi.
Un attimo prima che arrivino, entrerai sparando e li terrai lontani abbastanza perché non mi facciano a pezzi, e il tuo sguardo sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che tutto sfumi sui titoli di coda.
Prima di svegliarmi in un mondo senza dolore né rabbia né colpe, in cui c’è una strada di smeraldo, in cui non mi lascerai.

sabato 16 agosto 2008

Che fine ha fatto Mr. Y di Scarlett Thomas (Newton Compton, 2008)

Chissà perché quando penso a un libro maledetto, subito mi viene in mente il Necronomicon di H.P. Lovecraft, un’opera che lo scrittore di Providence ha consegnato alla storia della letteratura come gigantesco contenitore di abominii che viaggiano nel tempo e lo spazio per dominare mondi e creature. Ed è l’unica associazione che ho fatto, forse l’unica che poteva saltarmi in mente, leggendo lo splendido libro di Scarlett Thomas edito dalla Newton Compton dal titolo Che fine ha fatto Mr. Y. E lo Spazio-Tempo, le sue dinamiche, il viaggio in universi paralleli, e l’incontro con divinità mostruose (nell’accezione latina di monstrum come ciò che appare straordinario) è il filo conduttore delle vicende che sorreggono la vita narrativa della protagonista Ariel Manto. Giovane ricercatrice della British University, che a seguito della scomparsa del suo mentore, e al crollo di una parte della sua università, viene diretta dal Caso (in questo caso specifico il suo anagramma Caos è molto più pertinente) in un negozio di libri usati dove trova il tassello mancante per una sua ricerca su un autore singolare e misterioso come Lumas: ovvero la sua ultima opera dal titolo per l’appunto Che fine ha fatto Mr. Y. Questo scrittore, la cui vita era stata avvolta più da zone d’ombra che da una fulgida e trasparente esistenza, aveva sviluppato una serie di esperimenti sul potere della mente e su come grazie a singolari e potentissime energie mentali eteriche insite in ciascun individuo umano, ovviamente con il supporto di una particolare mistura la cui ricetta veniva indicata all’interno del grimorio maledetto, il viaggio in dimensioni diverse dalla nostra non solo risultava possibile, ma addirittura con la debita pratica si riusciva a entrare nella mente di altri soggetti sia persone che animali modificandone comportamenti e scelte, ma anche spostarsi (attraverso la Pedesis) nel tempo per modificare la Storia, le Storie. Il mondo in cui tutto ciò è possibile nel libro si chiama Troposfera, e il suo Dio-Guida è Apollo Smintheus, mezzo uomo e mezzo topo, divinità pagana venerata da uno sparuto gruppo di seguaci (più o meno sei persone che a lui hanno dedicato un culto in una piccola cittadina di provincia del nord-america) che orienterà le azioni di Ariel Manto salvandola da agenti psichici dell’Intelligence Americana facenti parte di un progetto segretissimo chiamato Starlight per il controllo delle menti (la Cia ma potrebbe essere tranquillamente l’FBI -ndc), desiderosi di impossessarsi della formula forse per creare, chissà, un super-soldato. I punti di forza che rendono affascinante un personaggio come Ariel Manto è il suo appeal da bella tenebrosa, e sessualmente famelica, con un pizzico d’aria bohemien che non disturba affatto. Le peculiarità che rendono completo, avvincente, godibilissimo questo lavoro, è che con assoluta disinvoltura si parli di Deridda, Einstein, e Heidegger, sviluppando per quest’ultimo l’ipotesi dell’esserci (Dasein) come perfetta gestazione causale di effetti nella realtà da parte del linguaggio, ovvero una vera e propria fenomenologia della liberazione umana, da condizionamenti, imposti al di fuori delle proprie coscienze ed esistenze. Chicca delle chicche, la teorizzazione da parte di una scienziata, una delle protagoniste secondarie dell’opera, con considerazioni scientifiche fatte in maniera davvero puntuale e rigorosa ,della fisica post-strutturalista. Non cedete alla tentazione,dopo aver letto questo libro di pensare a Matrix… è veramente tutta un’altra storia! E poi …siamo sicuri che Scarlett Thomas abbia scritto quest’opera come frutto di pura invenzione?



Titolo originale: The End of Mr Y.
Traduzione di Milvia Faccia

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